I banchi sul lettino.

Per una lettura sintomatica della punteggiatura nel tema.

Stefano Borgarelli, da DocentINclasse, 11/3/2007

 

[…] gli immigrati si sentono parte integrante del nuovo stato, talmente integrante che pretendono addirittura più diritti dei cittadini stessi. Purtroppo, sembrerebbe anche che non sia sempre gente pacifica, anzi: quante volte abbiamo sentito parlare di gruppi di extracomunitari che rubano, stuprano ragazzine e uccidono solo per semplici litigi? E quello che non viene detto è che dopo pochi giorni vengono rilasciati per misteriosi motivi. Ma che storia è mai questa!? [sic] Questa è tutta gente che viene nel nostro paese per far baldoria e nessuno riesce a fermarla!? [sic]


Il punto di domanda viene
dopo quello esclamativo. La necessità impellente, e benpensante, d’esclamare ha precedenza assoluta. Posso tuttavia sperare che l’intonazione confusa delle frasi tradisca un’incertezza rimossa dello studente – quinta superiore, allievo “mio” per il terzo anno consecutivo – mascherata dall’urlo retorico… Rileggo la seconda frase, la più pasticciata tra le due al diapason. Mi dà nuovamente l’impressione (il tema risale al dicembre 2006), d’un compromesso faticoso tra due istanze molto diverse tra loro. Opposte. Una manifesta, l’altra latente. Il contenuto grossolanamente reazionario dell’enunciato sui veri (presunti) scopi di qualsiasi immigrato è ovviamente fuori discussione. Ma la crosta della certezza ostentata sembra incrinata da quel punto interrogativo, curioso e straniante come un lapsus (messo dopo com’è), che m’invita a rileggere ogni singola affermazione sotto il segno dell’incertezza, con attenzione speciale all’ultima: “Questa è tutta gente che viene nel nostro paese per far baldoria?” (cioè: sono proprio sicuro che stiano davvero così, le cose?). Domanda che attraversa l’esclamazione in sordina, mettendone in questione la verità senza che si ammettano repliche sul piano manifesto dell’enunciato. Spiffero d’incertezza, nella boria da padrone della Casa-Paese alla cui porta il mare sbatte, a intervalli più o meno lunghi, i corpi senza vita dei poveri cristi che sognavano la “baldoria” stivati nella barca di qualche scafista.

Ho reagito duramente a quel tema. Ho dato l’insufficienza, più per l’insostenibilità della tesi di fondo che per le sgrammaticature (poche, non gravi). Mi sono chiesto come uno studente d’una mia classe per il terzo anno, se ne sia potuto uscire con quelle sparate. Mi sono risposto che ci troviamo nel Nordest leghista, che ha prodotto in modo contraddittorio globalizzazione e localismo (anche esasperato). Cancellazione d’identità plurali e affermazione d’identità parziali. Dove un "Assessorato per le politiche alla cultura, all'istruzione e all'identità veneta" cerca da tempo di produrre su scala regionale quella che Balibar ha chiamato – a proposito della comunità istituita dallo stato nazionale – "etnicità fittizia". Ho cercato d’aggredire i luoghi comuni più banali, indicando al mio allievo come possano provenire da un’informazione locale (ma anche nazionale) a dir poco tendenziosa: “[…] oltre la metà degli articoli dei quotidiani analizzati (i maggiori otto per diffusione) contestualizza e tematizza la “figura” dell’extracomunitario in vicende di cronaca nera, droga, terrorismo.” (I dati provengono da una ricerca del 2003, pubblicata sul sito dell’Associazione A buon diritto). Il punto è (resta) però, che uno studente impegnato da tre anni con me nello studio dei fatti della storia, quindi in una riflessione su nevralgici quanto controversi giudizi di valore, avrebbe dovuto almeno riconoscere la complessità della questione affrontata nel tema scelto, sospettando l’inaccettabilità (quantomeno da parte mia) di semplificazioni grottesche (ovvero ideologiche). Però. Resta (anche) quel segnale ambiguo della doppia intonazione. La domanda, con cui il giovane padrone di casa (in attesa ansiosa delle forze dell’ordine) ha messo in disordine, da solo, la casa.

Per un ragazzo adulto all’anagrafe, il tema in classe è anche un’occasione d’affermarsi, affermando qualcosa. Di confermarsi “socialmente”, dentro un’istituzione che lo valuta anche su questo piano (tutti continuano, continuiamo, a chiamare “Maturità” l’Esame di Stato). Alla fine del suo La malattia chiamata uomo, Camon racconta la vicenda conclusiva della sua terapia analitica, tema del romanzo. Traccia una distinzione netta tra due modi del parlare:
 

In un certo senso, scoprii che solo in analisi si parla […]. Nel mondo, l’uomo parla per confermarsi: non c’è che lui. In analisi, l’uomo parla per smentirsi: c’è l’altro.” (ed. Garzanti, 1981, p. 171).

Ecco. Piacerebbe anche a me rappresentare qualcosa di simile all’altro. Lo studente (come il paziente, e con lui l’insegnante), potrebbe smettere di parlare per confermarsi. Per affermarsi. Potrebbero forse cominciare a parlare (lui e l’insegnante) per sospettare che si può essere smentiti dalle proprie stesse parole. Dette, oppure scritte. Accompagnate (per esempio) da segni di punteggiatura disposti in modo ambiguo. Per affermarsi, ma anche per essere smentiti. Per imparare, col tempo, a smentirsi da soli.