Da allora si alzano in piedi....

Alla radice di tanti problemi della scuola d’oggi, dall’arroganza dei ragazzi al bullismo fino ai genitori “sindacalisti”, la caduta di autorevolezza dell’insegnante dovuta a
un malinteso antiautoritarismo; “fai l’adulto” è la richiesta, chiarissima anche se non esplicita, che i ragazzi rivolgono all’insegnante; la presenza dei ragazzi immigrati,
un problema in più ma una grande occasione per tutti. Intervista a Laura Manassero.

di Laura Manassero, Una Città, marzo 2006.
da [Ora buca]

 

Laura Manassero insegna alla Scuola Media Croce-Morelli di Torino.

La cronaca delle ultime settimane ha riportato la scuola in primo piano, offrendo però un quadro a dir poco inquietante: presidi picchiati, genitori sempre più sindacalisti dei figli, violenza… Cosa sta succedendo?

Io ho lavorato sempre in realtà molto particolari, prima nei quartieri dell’immigrazione meridionale e poi, da 17-18 anni a questa parte, con gli stranieri, quindi ho una visione parziale della situazione.

La mia impressione è che negli ultimi anni si siano fatti alcuni errori educativi, e qui non parlo solo della scuola. Da tempo, infatti si denuncia come le grandi agenzie di un tempo, la famiglia, la scuola, il partito, l’oratorio, non educhino più. Oggi i ragazzi sono totalmente in balia di se stessi, e quindi dei media; tutti gli altri soggetti hanno perso potere o autorevolezza…

La percezione è che da un certo momento in avanti si sia avuto paura di tutto ciò che era collegato all’autorità, all’ordine, alla disciplina, e s’è fatto di tutta l’erba un fascio; il terrore della mia generazione era quella di passare per autoritari. E tutto ciò che era regola era autorità. Mi ricordo che quando ho cominciato a lavorare avevo degli amici, sessantottini puri, che bonariamente mi accusavano del fatto che nelle mie classi ci fosse sempre un discreto silenzio e un clima sereno. Un amico addirittura giunse alla conclusione che io ero evidentemente autoritaria “perché non c’è il caos in classe”.

Il fatto è che io, molto banalmente, nel caos non ho mai potuto lavorare, non mi è congeniale. Pertanto, nei contesti in cui opero, le regole ci sono, sono possibilmente condivise, e il resto se lo gioca l’autorevolezza dell’insegnante, che non deve avere paura di un ruolo che può anche essere forte. Perché la responsabilità, non dimentichiamolo, è dell’adulto.

Ecco, negli ultimi anni si è assistito a uno slabbrarsi del concetto di autorevolezza (che io uso senza timore), a cui è corrisposta una generazione molto arrogante e tendenzialmente vandalica. Mi sono imbattuta più di una volta in situazioni in cui l’allievo mi diceva, con tono deciso: “Ma chi si credono di essere questi adulti. Mica ci vogliono comandare!?”.

Fortunatamente lavoro in una scuola con un bel consiglio di classe e un team affiatato, con cui è possibile confrontarsi. Mi sembra che uno dei punti sia la presa di consapevolezza che per crescere servono dei riferimenti, che poi magari contesti. Quando c’è qualche tensione con i ragazzi, io lo ripeto spesso: “Prima obbedisci e poi mi contesti”. Cioè, devi prima passare dal concetto che c’è una regola, mi contesterai dopo. Altrimenti il rapporto con l’adulto diventa brutto, ma brutto per loro, perché poi se non c’è il riferimento c’è ansia e finisce che questi poveretti finiscono allo sbando…
Dicevi che lavorare in situazioni critiche ti ha insegnato molto. Puoi raccontare?

Ho cominciato a insegnare al quartiere Falchera con l’ultima immigrazione dal Sud, quella durissima, che non era inserita nemmeno nel luogo di provenienza; parlo di quartieri come lo Zen di Palermo, ecc.

Ebbene, la prima cosa che mi hanno insegnato quei ragazzi è che se fai l’adulto fai il “capo”, un’idea che decisamente non mi apparteneva.

C’era una ragazza -a 16 anni frequentava la terza media- con alle spalle un’esperienza di vita assai più grande di quella che avevo io, che all’epoca ne avevo 30. Andavamo d’accordo -in genere io non ho problemi a relazionarmi con i ragazzi; non è un merito, è proprio un dono, una vocazione forse. Ricordo che un giorno lei interruppe la lezione per chiedere: “Posso uscire?”. E io le dissi: “Abbiamo stabilito che se devi uscire puoi farlo, però non interrompere”. Lei ebbe una vera crisi di rabbia, cominciò a urlare: “L’insegnante è lei, è lei che dice se posso uscire o no”. Io non la capivo proprio: “Ma scusa, Franca, abbiamo stabilito delle regole” e lei, urlando, disperata: “E’ lei che deve dirmi se sì o no!”.

Per me fu uno shock, davvero, entrai in crisi. Fu lei, in seguito, a spiegarmi cos’era accaduto: se le avessi detto di sì, lei non sarebbe uscita perché non ne aveva bisogno; se le avessi detto di no, mi avrebbe contestato per vedere se io ero forte. E se io ero forte lei mi voleva bene.

Inutile dire che io in testa avevo tutt’altro modello, ben altri riferimenti pedagogici. In questo senso la lezione l’ho imparata sulla mia pelle. In fondo loro mi chiedevano una cosa molto semplice: “Fai l’adulto. Il rapporto affettivo c’è, però tu fai l’adulto”. Credo che questo sia uno dei nodi su cui dovremmo iniziare a lavorare.

Venendo poi alla cronaca delle ultime settimane, devo dire che noi, rispetto a certe problematiche, siamo stati un po’ degli anticipatori. E tuttavia non abbiamo mai avuto problemi con le famiglie. I provvedimenti, anche abbastanza duri, sono sempre stati concordati. Già un paio d’anni fa siamo stati tra i primi a dire che a scuola si viene vestiti in modo non sconcio. Ci aspettavamo un’alzata di scudi e invece… Per noi poi era essenziale perché vivendo tra tante culture, un normale ombelico fuori poteva produrre delle situazioni complesse. Anche con i telefonini: se era opportuno, venivano temporaneamente ritirati, punto.

Lavorare con gli stranieri ci ha insegnato molto anche dal punto di vista di una riflessione pedagogica. Come dicevo, la mia generazione aveva abolito il concetto di autorità, come pure quello di competizione, entrando in una fase di contestazione necessaria, ma rispetto alla quale bisognava passare oltre, non fermarsi lì.

Allora, una delle critiche che mi fanno i ragazzi rumeni, negli ultimi anni, è che questa non è una scuola seria. Per i rumeni, ma anche per i cinesi e certi marocchini, è “seria” una scuola che fa studiare di più, che premia i migliori… Di nuovo, noi giustamente abbiamo lottato contro una competizione esasperata, senza però aver niente di diverso da controproporre. Tra l’altro in un contesto di assenza di amor proprio piuttosto preoccupante.

Racconto un episodio che mi ha molto colpito. Sette, otto anni fa avevo una classe di ragazzini di borgata, solo italiani; una classe complessa in cui però andavamo molto d’accordo. Eravamo riusciti a inserirli in un progetto di scherma della Regione, e loro erano veramente bravi, tant’è che in cinque arrivarono alle finali regionali. Noi eravamo trionfanti. Ecco, di cinque solo uno poi si è effettivamente presentato. Le finali erano di domenica, allora uno doveva giocare a calcio, uno non voleva svegliarsi perché aveva sonno, l’altro non l’ha svegliato la mamma…

Fu un momento di grande sconforto per noi, su cui però occorreva interrogarsi: perché questi ragazzini erano così demotivati anche rispetto a una promozione sociale? A partire da questo scacco, abbiamo iniziato a lavorare su un tema a mio avviso importante, ovvero la sfida con se stessi, e quindi sulle potenzialità, che non vanno sprecate.

Tra ragazzi stranieri e italiani è nato un bel dialogo, anche perché i ragazzini immigrati hanno ancora quell’idea della scuola del riscatto sociale. Per loro poi l’insegnante è un riferimento affettivo importante, perché se pure hanno una famiglia, vivono una lacerazione, per cui cercano nell’adulto un legame di riferimento.

Riscontri un aumento dei fenomeni di bullismo?

Ho lavorato sempre in scuole con tassi di difficoltà piuttosto elevati, anche con fenomeni di devianza. Io non so se oggi ci sia più bullismo di quanto non ci fosse una volta.

Se bullismo c’è, per me è frutto di generazioni che, da un lato, hanno modelli molto labili, perlopiù veicolati dai media, dall’altro soffrono grandi solitudini e insicurezze; l’assenza di paletti non necessariamente è una cosa buona. L’anno scorso mi sono trovata a parlare ai miei allievi, a mo’ di preistoria, di com’era la scuola quando ci andavo io. Siccome lo chiedevano spesso, allora mi sono messa a raccontare, anche un po’ teatralmente: “Avevamo un grembiule nero” e loro: “Che bello! Lo vogliamo anche noi”. Spiazzata. Oppure “Quando entravano gli insegnanti ci alzavamo tutti in piedi”, bene, da allora si alzano regolarmente in piedi… Insomma, è stato fatto il giro a 360 gradi.

Ma con questo non voglio dire che bisogna tornare alla disciplina autoritaria del passato, per carità. Si può insegnare anche attraverso forme di complicità. Con la nostra classe abbiamo aderito al progetto della lettura di un quotidiano in classe; è un ottimo spunto per fare storia, geografia in un modo diverso.

Quando c’è stato l’episodio della supplente che aveva tagliato la lingua a un suo allievo era proprio il giorno destinato alla lettura del giornale. Ecco, io avevo pensato di esordire mettendo le forbici sulla cattedra. Bene, mi sono affacciata alla porta e quei disgraziati dei miei allievi avevano tutti le forbici sul banco! C’è stata una risata generale ed è finita lì. Più imbarazzanti erano stati i commenti sui presunti episodi di violenza sessuale in classe, soprattutto i ragazzini musulmani… Ma anche lì, fatto salvo che non conoscevo i fatti, ho provato a spiegare che ci sono persone che possono avere problemi di relazione e che tra questi possono esserci anche insegnanti. E’ finita lì. Noi parliamo un po’ di tutto, non c’è alcuno spunto che venga tralasciato.

Tornando al bullismo, al quartiere Falchera io ricordo situazioni durissime. C’era questa capobanda, tra l’altro donna, di una famiglia importante. Un giorno un ragazzino aveva preso la sua sedia per salirci e piantare un chiodo per un disegno, lei lo aveva fatto inginocchiare per terra e voleva pulisse la sedia con la lingua. Era bullismo? Certo era prevaricazione violenta all’interno di un gruppo. Però era anche un comportamento che risaliva a un atteggiamento mafioso ben preciso, con dei codici… lì è stata dura, con scontri durissimi. Alla fine lei ha ceduto ed è nato un grande rapporto che dura da vent’anni. Ogni volta che viene a Torino mi cerca. Tra l’altro era tornata a Palermo, in zona di droga, era stata trovata in overdose e lei aveva in tasca il mio numero di telefono, mi telefonò la polizia, pensa… era passato parecchio tempo…

Insomma, io sono molto imbarazzata su questa questione. Credo che le prevaricazioni ci siano sempre state, e però, anche alla luce della mia esperienza, trovo bizzarro che questi episodi succedano più nelle scuole “bene”, che non in quelle appunto critiche…
In passato è accaduto anche da noi che genitori, casomai assenti (anche questo è curioso), si mettessero a fare i sindacalisti dei figli. C’è stato qualche tentativo di prevaricare, o comunque di non riconoscere il ruolo, però si trattava di episodi rari.
Temo dipenda anche dalla classe sociale d’appartenenza. Un’amica qualche giorno fa mi ha raccontato che una sua allieva di una scuola bene, a un brutto voto ha reagito dicendole: “Ma lei cosa fa? L’insegnante? Bene, domani verrà mio padre, che fa il primario, e le spiegherà lui un paio di cose”, e così è stato. Ecco, io non so se ce la farei in una scuola così…

Quanto conta, qui, il mancato riconoscimento sociale, e quindi economico, dell’insegnante?

All’origine dello scarso riconoscimento sociale c’è sicuramente il fatto che l’insegnante guadagna poco. Ma non c’è solo questo. Io credo che noi abbiamo perso di autorevolezza rispetto alle famiglie anche perché non sempre abbiamo assolto alla funzione di fare gli adulti. Lo stesso inserimento dei genitori nella scuola -una conquista democratica- è diventato così fonte di confusione di ruoli. E questo non va bene. Intendiamoci, io do molta importanza alle famiglie, purché però non agiscano esclusivamente in modo intrusivo. Cioè io all’idraulico che mi viene in casa non chiedo che cosa fa, gli riconosco di essere lui il competente, dopodiché gli potrò chiedere quanto ci metterà, quanto chiederà…

Insomma, con i genitori io ho sempre pensato in termini di un’allenza: si lavora assieme sull’aspetto educativo, su fronti diversi. Ma per potersi confrontare sul ragazzo e sulle finalità la madre deve fare la madre e io l’insegnante. Pare una banalità, ma qui si è rotto qualcosa e la situazione è aggravata dal fatto che appunto oggi i ragazzi sono molti più affascinati da una playstation… Credo comunque che noi dobbiamo, da un lato, riprenderci un ruolo e dall’altro però rivederlo, perché nulla è dato per scontato.

Questo discorso evidentemente va a toccare anche la questione della formazione degli insegnanti; sono tanti i punti di cui si potrebbe discutere nell’ottica di una scuola diversa. Per dire, quali sono oggi le competenze di un insegnante?

Credo sia giunto il momento di chiedercelo. Anche perché l’età media degli insegnanti sta diventando piuttosto alta; nel giro di pochi anni un intero blocco di insegnanti andrà in pensione e alle spalle ci sono perlopiù precari.

Tra l’altro, noi siamo usciti da un’idea di scuola “sociale” che avevamo tutti un po’ introiettato. I giovani insegnanti che arrivano sono molto più rigidi. Forse sarebbe opportuno avviare una discussione su questi temi, anche perché io, per dire, che pure riconosco molti limiti al nostro approccio, non sono disposta a tornare a una scuola che sia solo luogo di selezione pura e non di inserimento sociale.

Da ormai diversi anni insegni in una scuola con un’altissima concentrazione di ragazzini stranieri. Puoi raccontare?

Credo che la presenza di bambini stranieri sia “salutare” per la scuola perché ci costringe ad affrontare questioni su cui da anni non si discuteva più.

Io ora insegno a Porta Palazzo, il quartiere storico dell’immigrazione dal Sud, che poi si è spostata lasciando posto agli stranieri, che quindi si sono inseriti in un quartiere già ad alta vocazione migratoria. Di qui la diversa portata, anche mediatica, del fenomeno, rispetto a San Salvario, che ha una storia e una popolazione diversa. A Porta Palazzo, per dire, non c’è stato tutto il baillame del crollo del prezzo delle case.
Dopo l’esperienza al quartiere Falchera, il cosiddetto Bronx, ero approdata in una scuola del centro storico, dove sono stata fino agli anni ‘90. Lì avevamo già un 30% di stranieri suddivisi tra albanesi, marocchini e moltissimi cinesi, perché era la zona dei ristoranti. Nel ’93 sono entrata in questo istituto comprensorio che riuniva tre scuole, Croce, Morelli, Verga, e dove oggi abbiamo circa 460 stranieri, su un totale di 900; siamo sul 52-53%. Il primato se lo contendono, a ruota, l’area del Marocco e l’area della Romania, il resto è proprio il resto del mondo. Abbiamo 32 etnie rappresentate almeno da un ragazzo…

Ricordo ancora gli anni dei minori soli, essenzialmente marocchini. Poi c’è stata la novità della fascia dell’eccellenza della Romania, che ci ha costretto a rivedere le nostre pedagogie. Parlo di ragazzi con un’incredibile aspettativa scolastica e con una solida preparazione, magari un po’ rigida e competitiva, ma che c’era e con cui dovevi fare i conti…

L’anno scorso avevo una classe che, a guardarla dall’esterno, faceva un po’ paura: una terza media, 27 ragazzi, tra cui 14 stranieri di sette etnie diverse e sei ragazzi del quartiere in situazioni molto difficili. Questa classe ci ha, a dir poco, sorpreso: la metà si è iscritta al liceo; delle intelligenze e degli entusiasmi rari, per cui si erano contagiati. E comunque dei 15 che sono andati al liceo nove sono stranieri e ce la fanno -vengono regolarmente a trovarci…

Ecco, questa secondo me è una cosa su cui riflettere. La nostra scuola non è più il luogo della promozione sociale, e però questi ragazzini si presentano con un immaginario scolastico di riscatto sociale, chiedono un insegnante autorevole e tutto questo ci interroga.

In tutti questi anni di lavoro, si è creata una scuola certamente complessa, certamente molto faticosa, perché lavorarci significa spendere tante energie e risorse, dare molto, però è uno spaccato di un ambiente multiculturale che è abbastanza idilliaco, rispetto a quello che c’è fuori. I miei allievi lo dicono spesso: “Però fuori non è la scuola, questa è un’oasi”.

Cosa vuol dire insegnare in una classe con culture, ma anche livelli di preparazione, così diversi?

Il primo problema è la lingua. Nell’arco dell’anno entrano tra i 90 e i 100 ragazzi, che arrivano così, da un giorno all’altro, e quindi con le classi già formate. Ora, la prima esigenza è di tipo linguistico (oltre all’accoglienza, ma questo è un altro discorso). Le scuole si sono attrezzate. Noi siamo tre plessi organizzati in maniera diversa, con risorse diverse, tempi diversi, per via anche delle storie diverse. Nel nostro plesso, il Croce, i ragazzi hanno a disposizione dei laboratori interlivelli, nel corso della settimana, che coprono tutti i nuovi arrivi. Però poi il ragazzo è in classe e secondo me è di competenza dell’insegnante fare di tutto perché il nuovo arrivato rinforzi la lingua e trovi un ambiente in cui sentirsi bene.

Già ai tempi della Falchera andavano di moda le didattiche che partivano dalle storie di vita. Ora, la presenza di stranieri, nella didattica quotidiana, è una risorsa fenomenale. Pensiamo solo alla geografia. Certo, molti casomai si vergognano delle loro storie precedenti, però gradualmente, se il clima è giusto, condividono le loro esperienze. Anche la religione è un punto importante, e non solo per i ragazzi islamici.
L’anno scorso abbiamo partecipato a un progetto del Comune, “La famiglia”. Ovviamente l’ho proposto in terza non in prima perché era una questione delicata; ebbene, loro hanno portato una serie di storie stupefacenti. In terza, dopo due anni che si discuteva di sottosviluppo, potenzialità di sviluppo, ecc. ho scoperto che una ragazzina era cresciuta in una favelas di Nairobi e non l’aveva mai detto perché si vergognava.

Puoi immaginare, tra l’altro con uno spaccato sulla famiglie islamiche (che poi io sono andata a verificare su libri e con esperti), da cui emergeva la figura di questo nonno, abbastanza benestante, che in Kenia aveva più famiglie (loro erano somali, profughi di guerra) e manteneva queste donne in luoghi diversi e lontani perché “sennò le donne litigano”; emergeva uno scenario di famiglie islamiche fatte di donne e bambini, con il padre che vagava oppure di kenioti cristiani, con modelli diversi, e tutti vivevano assieme, con il coprifuoco, problemi di droga, alcool…

Allora, se tu hai in classe ragazzi che hanno vissuto storie di questo tipo, è molto più facile insegnare, perché non è una cosa astratta, scollegata.

Certo, bisogna cambiare forse l’ottica dell’insegnamento. Non hai più un’idea di programma che svolgi quotidianamente in maniera fissa e rigida; hai degli obiettivi ben chiari in testa, cioè sai dove devi arrivare, ma parti sempre da loro.

Per me è una sfida molto appassionante. All’inizio ti destruttura un po’, perché non hai delle certezze che ti confortano nelle scelte, ma devi avere ben chiari obiettivi e finalità; le conoscenze ce le hanno loro. Poi, io sono convinta che se una classe funziona bene può fare cose incredibili, se l’insegnante ci crede.

Tu sembri smentire l’idea che le scuole “specializzate” negli stranieri scontino inevitabilmente un ritardo rispetto alle altre, con il pericolo di una scuola a due livelli…
Francamente io non so rispondere se si apprende più lentamente o meno. Io so per certo che è diverso il modo di lavorare, come pure gli obiettivi. Recentemente ho inserito una ragazzina egiziana, timidissima e studiosissima. Bene, con gli altri continuo a fare il lavoro intrapreso e di volta in volta predispongo delle attività in cui lei non si senta esclusa. La ragazza intanto frequenta il laboratorio di italiano per arabofoni; tra l’altro in classe ci sono altri ragazzi che parlano tunisino o egiziano e che possono sintetizzare per lei, che è velocissima ed è un bell’esempio per gli altri: ha un quaderno perfetto, studia, ripete, e comincia già ad alzare un pochino la mano.
Non so, questo significa stare indietro? Non credo. Certo, occorre diversificare le attività, lavorare su più livelli; insomma, è faticoso, ma anche molto gratificante. Magari, se faccio una domanda, per lei la faccio tradurre, in modo che non si senta esclusa. Può darsi che per qualcuno questo significhi rallentare, per me no. Anzi, perché educativamente i ragazzi sono molto più umani e imparano a stare assieme e ad ascoltarsi. Il vero problema, semmai, mi sembra quello di non mortificare le eccellenze. Noi, da qualche anno, abbiamo avviato dei progetti di eccellenza, come attività plurilingue con lingua veicolare inglese.

Nell’esperienza con gli stranieri, sei venuta a conoscenza anche di casi drammatici. Puoi raccontare?

Personalmente ho avuto il caso di un ragazzino peruviano, uno dei primi cosiddetti “bambini pirana”. Parliamo di casi molto particolari e drammatici. In alcuni contesti, tra cui appunto il Perù, succede che la madre parte per fare la badante in Europa e lascia a casa il bambino con il padre, che poi viene via a sua volta; il ragazzo a quel punto rimane lì con i nonni o con il gruppo parentale allargato…

Ebbene, nel caso in cui mi sono imbattuta, il ragazzino peruviano, di intelligenza superiore, aveva avuto diverse vicissitudini familiari, e dopo anni trascorsi in strada c’è stato questo ricongiungimento drammatico. Lui non voleva venire, la madre si era già ricongiunta col padre e come accade spesso aveva già avuto un altro figlio. Altro elemento traumatico. E’ stata un’esperienza durissima. Questo ragazzino davvero ci ha messo in ginocchio, non già perché avesse problemi particolari, ma ne percepivamo un modo altro di rapportarsi. Ad esempio picchiava il fratellino di 18 mesi, ma già con delle tecniche per cui non risultava. Ha creato molti problemi; a scuola andava bene, frequentava regolarmente, ma aveva degli atteggiamenti talora sconcertanti, degli immaginari sessuali anche molto diversi da quelli degli altri ragazzi. Era molto solo, aveva dei codici d’onore particolari; i ragazzi in parte lo temevano, però erano anche attratti, perché era un ragazzo bello e intelligente.

Un giorno è scappato da scuola. L’aveva combinata grossa: aveva rubato il portafoglio a una signora di colore che lavorava in cortile, non già, secondo me, perché gli interessassero i soldi, ma perché non la sopportava, diceva che era brutta, sgraziata e lenta. Chiamati i genitori, lui è fuggito in loro presenza. Per un intero giorno non si è più saputo dove fosse. Siamo andati a cercarlo in macchina nei luoghi in cui pensavamo potesse essere. L’abbiamo poi trovato verso sera, era da un compagno. E la prima cosa che ha chiesto è stata se c’ero anch’io. Perché in fondo la sua era una grande vittoria, una rivalsa. Per i genitori era difficilissimo gestirlo…

Erano passati troppi anni e l’odio accumulato da questo ragazzo era enorme. Però, ripeto, è un caso quasi unico, un’anomalia. Resta il fatto che il ricongiungimento con la madre sui maschi crea più difficoltà. E questo è un elemento di riflessione, perché le donne che vengono nel nostro paese a fare le badanti non possono, almeno all’inizio, portare con sé i figli, quindi è un modello destinato a diffondersi, e ancora non ne conosciamo gli effetti.

Alcuni amici che lavorano nei centri territoriali per adulti mi hanno spiegato che nelle comunità peruviane, che nell’immaginario collettivo sono molto miti e disponibili, in realtà i ragazzi spesso covano rabbie tremende per questo abbandono materno.

Certo, sono casi effettivamente estremi, paragonabili ai ragazzini di Bucarest che vivevano in branchi nelle tubature sotterranee.

Si è dimostrato che questi ragazzi, chiamati tragicamente “cani randagi”, elaboravano delle strategie di gruppo tali, per cui con loro più che le pedagogie funzionavano gli studi di etologia… terribile.

Avete anche diversi allievi cinesi…

I cinesi sono un mistero. Sono apparentemente degli allievi modello, in generale sono educatissimi, molto attenti, anche se poi hanno delle modalità molto rumorose di stare assieme, cosa che nessuno crederebbe.

Noi abbiamo una mediatrice molto brava che riesce ad agganciare le famiglie o chi per esse. Più di una volta è capitato che una ragazzina si riferisse alla madre con un nome mentre io ne ricordavo un altro, “No, no, ma quella è un’altra madre”; questo capitava soprattutto anni fa, ora evidentemente sono in atto dei ricongiungimenti. Comunque i genitori vengono, ma non sanno la lingua e per ovvie ragioni non si possono coinvolgere i figli. Quindi serve un mediatore. Adesso cominciamo ad avere ragazzini cinesi molto occidentalizzati, con i capelli e l’abbigliamento all’ultima moda, che tra l’altro criticano duramente i compatrioti più tradizionali. A volte c’è da morir dal ridere: “Plof, quella è conselvatola”, “Cosa vuol dire?”, ah conservatrice! “Sì, gualda com’è vestita?!”.

Con loro c’è in realtà un problema a monte, che è il lavoro minorile, e che però andrebbe affrontato con un po’ di buon senso… Cioè, fino all’altro ieri anche qui i bambini lavoravano; i nostri nonni, i nostri genitori… Mio padre a 14 anni lavorava, ha studiato successivamente, di sera, e non si sentiva né sfruttato, né represso…

Da questo punto di vista, ci preoccupano di più i marocchini soli, lì sì che ci allertiamo e cerchiamo di instaurare dei rapporti con le comunità di base; abbiamo delle reti di mediazione che ci possono dare una mano. Su questo ora le cose vanno abbastanza bene, rispetto all’inizio che non c’era nulla…

Si tratta di tenere gli occhi aperti. Abbiamo avuto anche qualche caso di ragazza infibulata; ne hanno parlato loro, anche con orgoglio.

Io francamente non ho potuto dire altro che ero contenta se lei era contenta; non c’erano gli strumenti per discutere, sono poco più che bambine e comunque occorre grande cautela e delicatezza… Altro sarebbe stato se mi fosse stato chiesto un parere…

UNA CITTÀ n. 146 / Marzo 2007