Il Latino e la Matematica: 4 X 16.

 da ScuolaOggi dell'11/5/2007

 

Matematica e latino: il voto è 4, bersaglia 16 dei ventisei alunni della classe. E’ un fatto accaduto alla fine del primo quadrimestre, in un liceo come tanti altri. Possibile?

Le due materie, guarda caso, sono quelle portanti del corso di studi. Si può pensare che altre discipline facciano sconti. Perché? Siamo di fronte a un “primato disciplinare” di tradizione, anzi di tradizioni differenti: matematica è il sapere forte dell’indirizzo scientifico, latino è la materia caratterizzante l’essere un liceo.

Dunque, ogni corso di studi afferma se stesso anche nei voti. Come i prezzi in un negozio: possono essere proibitivi per mantenere il tono. E non importa verificare se i ragazzi in questione sappiano o no.

Il metro di giudizio viene da un’affermazione di valore dell’istituzi basta questo a falsare ogni accaduto. Ma siamo sicuri? I ragazzi hanno i voti che si meritano, poche storie. E in qualunque processo (produttivo, qui formativo) esistono pezzi di scarto o difettosi. Quando essi sono eccessivi il processo è sotto analisi. Lo si diceva negli anni Ottanta: troppi insufficienti dicono di un cattivo insegnante. Possiamo essere più morbidi: i pezzi di scarto servono per mettere a punto i sistemi di produzione, può dunque accadere che semel si riscontri in un liceo quel che riporta la notizia. Si farà tesoro dell’esperienza, si analizzeranno i problemi, si metterà in atto una diversa strategia. Cosicché il fenomeno si ripeterà sempre di meno fino a non presentarsi più. Non è così nella scuola. Può accadere che i pezzi di scarto o difettosi siano determinati dai materiali utilizzati. Un’azienda provvede allora a sostituire i fornitori. Qui la questione si fa pesante, pensando alla scuola. Se così fosse staremmo dicendo che non sono buoni i “materiali umani”, insomma i giovani, e ci sarebbe da cambiare fornitore (la mamma? la famiglia? la società?). Il che non si può fare, è evidente. Anche perché questi benedetti ragazzi sono un pezzo dello sviluppo che i padri hanno voluto o hanno “lasciato venire” senza ben rendersi conto delle conseguenze. Se così è, la scuola non può che farsi carico non dico di riparare i guasti, ma certamente di fare i conti con questi “materiali”. Ma come? Nel sistema scolastico frequentemente si sostiene che il “materiale umano” in questione non è “cattivo” in senso assoluto, ma relativo. Sono in tanti a pensare che i ragazzi che non ce la fanno al liceo potrebbero riuscire nell’istituto tecnico e da qui a discendere nell’istituto professionale e nella formazione professionale. Chi vede bene la cascata dei ragazzi in un “ordine” inferiore del sistema scolastico finisce per sostenere una tesi davvero preoccupante: il materiale è di “seconda scelta” e può andar bene per una ditta di “seconda scelta”, che si accontenta di prodotti di qualità “inferiore” magari a prezzi più bassi. A questo gioco non ci piace partecipare, che gli indirizzi di studio del nostro sistema scolastico rispondono ad aspettative e anche a “talenti” diversi, ma la qualità deve essere sempre garantita al massimo. E ancora. L’azienda che dovesse riferire la causa dei propri non buoni prodotti ai materiali formula la diagnosi dopo un’attenta analisi. A scuola non è così. I processi non sono messi in discussione, i prodotti (in termini di obiettivi) “devono” essere quelli. E dei giovani d’oggi sappiamo poco o niente, se non che ci sono incomprensibili e che si fa fatica a “lavorarli” a scuola.

Dice qualcuno, non a torto: la scuola e gli insegnanti hanno fatto di tutto e di più, ma loro, i ragazzi, non ne hanno voluto sapere. Gli studenti devono metterci del loro. Per farla breve, devono studiare. Siamo in tanti oggi a sostenere che il problema è questo: i giovani non sanno, neanche se lo volessero, studiare come intendiamo noi.

Ma noi studiavamo per un obiettivo: prendere la laurea, trovare un buon lavoro, essere diligenti come la famiglia dava per scontato. C’è qualcosa di questo, oggi?

Noi eravamo di certo dei bravi ragazzi, ma le prospettive, gli scenari sociali e familiari ci facevano “bravi” che a non esserlo eravamo dei disgraziati o dei poveracci alla don Milani. Oggi per i nostri giovani abbiamo messo insieme una società in cui essere bravi (in senso scolastico) è a dir poco fuori tema, una cambiale in nero per un futuro incerto.

Voler studiare non è ancora sufficiente, i ragazzi non sanno studiare come intendiamo noi. Avete mai provato a chiedere ai ragazzi se studiano? Ti rispondono di sì, a parte qualche testa matta, e sono in buona fede. Quante ore? Una, una e mezza …
Ah,pensiamo noi, e questo è studiare? Per le nuove generazioni “un’ora, un’ora e mezza” è un tempo lunghissimo, per mille ragioni che fanno capo alla frenesia della vita d’oggi.

Ti programmi o fai i compiti per il giorno dopo? Guai a fare la domanda, ti guardano come se fossi una mummia egiziana, che oggi la vita è scattante, non è fatta di tempi anticipati.
E come studi? Studio, ti rispondono e nemmeno capiscono qualche buon

consiglio (leggere, rileggere, schemi, ripasso).
Dietro la loro affermazione c’è una sola pulsione: passare l’interrogazione. Siamo mille miglia fuori strada.

Prendiamo la questione da un’altra parte, per toglierci dall’apocalisse. Nei giovani d’oggi la testa è diversa. Come lo era la nostra rispetto ai genitori e così via nel passaggio generazionale? Indubbiamente, ma con elementi da non sottovalutare.

Noi siamo figli di una generazione della guerra, con tutto ciò che questo comporta in valori di ricostruzione, sacrificio, aspirazione; loro sono figli del latte in polvere, del benessere.

Noi siamo ex studenti della scuola d’élite, loro di quella di massa: più democratica, la loro condizione, ma più contaminante, niente gruppo di pari se non nell’etnia.

Noi siamo figli di famiglia, di madri per lo più casalinghe, di gente che ce l’ha messa tutta per darci un futuro; loro sono sempre più figli di molte famiglie, di madri e padri che lavorano e ce la mettono tutta per tirare alla fine del mese.Troppe le diversità, profonde, per aspettarci che studino come intendiamo noi. Forse negli uffici postali si lavora come intendiamo noi? E in Parlamento? I giornali? L’editoria?

L’industria della moda? Gli artigiani? Perfino gli insegnanti, a essere onesti (l’eccezione conferma la regola) non lavorano più come intendiamo noi.

E allora ci arrendiamo? Giammai. Ma bisognerà trovare il modo di captarla, quella loro testa diversa. Qualche segnale c’è, da interpretare.

Noi leggiamo le istruzioni prima di toccare un marchingegno tecnologico, loro smanettano subito e di solito ce la fanno. La testa funziona diversamente, manca la paura dell’ignoranza.

Noi sentiamo musica nella beatitudine del piacere (o dell’evasione) culturale, loro la consumano come un capo di abbigliamento, girando con microscopici aggeggi nelle orecchie.

Noi leggiamo, loro fino a qualche anno fa guardavano la televisione, ora non più: tiene ancora il computer e parlano, parlano tra di loro.

Noi studiavamo per accumulare sapere con una certa fatica (scuola, biblioteca, vocabolario, enciclopedia). Loro hanno il sapere a portata di Internet, un clic e ti pare di sapere tutto. E per certi versi è così, lo sappiamo anche noi che un numero di telefono lo cerchiamo sul computer e non sugli elenchi telefonici, un itinerario lo guardiamo in Internet e non su un atlante.

Che vorrà dire?