Ragion politica.
Tito Boeri, La Stampa del
20/7/2007
Le pensioni sono da sempre un cardine
fondamentale del patto intergenerazionale su cui si reggono la fortuna
economica e la coesione sociale di un Paese.
Chi lavora paga la pensione a chi si è ritirato dalla vita attiva,
contando sul fatto che qualcun altro farà lo stesso quando verrà il
suo turno di andare in pensione. Le regole devono essere chiare e
credibili, cioè comprensibili a tutti e in grado di reggere ai
cambiamenti della demografia, che stanno modificando radicalmente la
struttura per età della popolazione. Devono anche essere fissate oggi
per i prossimi cinquant’anni in modo tale da offrire certezze a chi
adesso inizia a lavorare.
L’accordo che sembra essere stato trovato ieri in extremis all’interno
della maggioranza e che, in nottata, è stato nuovamente negoziato con
i sindacati dal presidente del Consiglio in prima persona potrà forse
servire a scongiurare una crisi di governo. Dovrebbe anche riuscire a
contenere gli effetti sulla spesa pubblica dell’abolizione dello
scalone, anche se per poter meglio valutare l’impatto sui conti
pubblici del pacchetto bisognerà attendere di avere maggiori dettagli
sulla definizione dei lavori usuranti e la ristrutturazione degli enti
previdenziali.
Ma come lo scalone, anzi peggio dello scalone, scardina l’impianto del
metodo contributivo introdotto con la riforma varata nel 1996. Da un
metodo responsabilizzante e cui gli italiani si erano ormai abituati,
sapendo che avrebbero ricevuto in base a quanto versavano durante
l’intero arco della vita lavorativa e potendo scegliere quando andare
in pensione. Le regole stabilite dal pacchetto sono invece arbitrarie
e complesse. Sarà difficile orientarsi fra quote anagrafiche e
contributive combinate, scalini singoli e doppi e nuovi oneri
figurativi.
Bene per i consulenti del lavoro, non per i contribuenti. Le
restrizioni vengono rinviate in là nel tempo, esattamente come faceva
lo scalone, varato nel 2004 per entrare in vigore nel 2008. Le quote
fissate ieri coprono un periodo che arriva fino al 2012. Chi ci dice
che fra un anno non ci sarà una nuova estenunate trattativa per
cambiare i nuovi scalini? Insomma, come nella storica «battaglia della
lira» a difesa di quota 90, in questa battaglia su «quota 96» le
ragioni della politica hanno prevalso su quelle dell’economia e della
razionalità. L’accordo ovviamente non prevede la revisione dei
coefficienti di trasformazione, l’unico strumento in grado di
garantire al tempo stesso sostenibilità finanziaria ed equità tra le
generazioni. Viene istituita una commissione che dovrebbe rivedere le
formule di calcolo dei coefficienti entro il 2010, quando
l’aggiornamento in base a criteri in grado di reggere l’urto dell’onda
demografica era già stato deciso un anno fa (vedi www.lavoce.info per
il documento di revisione dei coefficienti del nucleo di valutazione
della spesa previdenziale, oscurato negli ultimi mesi).
Vero che, d’ora in poi, le revisioni si dovrebbero fare ogni tre anni.
Ma la revisione attuale è già in ritardo di due anni ed il sospetto è
che l’istituzione della nuova commissione preluda a nuovi rinvii,
anticamera a loro volta di rinvii. Ma tanto del regime contributivo
varato nel 1996 con la riforma Dini ormai resta ben poco.
Il sistema pensionistico resta così governato dalla discrezionalità
politica, ciò che in passato ha prodotto debito, inefficienza e
iniquità.