Lo sforzo anti scuola pubblica è vasto e ben congegnato.

Abolire la scuola?

Furio Colombo da l'Unità del 29/7/2007

 

Gianfranco Fini volge lo sguardo su un orizzonte che per lui è vuoto. Non un ideale, non un tentativo di dire quale è la sua destra, non una speranza di subentrare all’unico vero leader. Si accorge che nessuno ha ancora diffamato gli insegnanti (di solito, a partire dalla signora Moratti, li si ignora e basta), teme forse che - dopo tanti anni di caccia al giudice - quella stagione stia per chiudersi, e declama: «Nelle scuole i nostri figli sono in mano a un manipolo di frustrati che incitano all’eversione».
Nel mondo di Berlusconi Fini conta poco. Il suo contratto con la Casa delle Libertà non prevede promozioni. Però conta molto nel mondo dei media (o della ossessiva “rappresenta-zione politica mediatica” definita giustamente come una maledizione da Giuseppe De Rita (Corriere della Sera, 12 luglio) dove il suo volto grave e abbronzato di finto giovane compare in media ogni 5 minuti in quasi ogni programma di quasi ogni televisione.

Adesso ha avuto un’idea: attaccare, svilire, svergognare gli insegnanti. Vale la pena di esaminare la frase. La parola “frustrati” fa pensare che gli abbiano riferito di qualcuno tutt’altro che passivo, tutt’altro che fannullone. La parola - che è stata usata molte volte per definire il direttore, il condirettore e i giornalisti del l’Unità - significa “non rassegnati”, non zitti, non acquiescenti, più o meno come Enzo Biagi. E subito sale la mosca al naso di Fini. «Come si permettono questi impiegati statali, di avere opinioni sui fatti e sulla vita, osando, per giunta di condividere le proprie emozioni e nozioni con gli studenti?».

La parola “eversione” («incitano all’eversione») denuncia probabilmente l’ostinazione di alcuni docenti a insegnare la storia, e non necessariamente sui nuovi testi del revisionismo. Interessante l’uso del verbo “incitare” («incitano all’eversione»). Sono parole che rivelano con chiarezza che cosa è insopportabile in un insegnante: che si dia da fare, che abbia voce e idee, che abbia coscienza e memoria e nessun desiderio di rinunciare.

Ci sono due provocazioni in questo atteggiamento. La prima è che il tipo di insegnanti in questione rifiuta di essere nullafacente e dunque non si può consegnare alla gogna già approntata - e subito divenuta celebre nei media - dei milioni di nullafacenti, soprattutto statali, che infestano la funzione pubblica in Italia (e che, a quanto pare sono tutti appollaiati sulle scale della pensione, come i gabbiani sui tetti di Roma).
Il secondo è che interferiscono, a causa di quel loro darsi da fare “eversivo”, con le nuove scuole di partito messe su scegliendo i giovani talenti a uno a uno, da cacciatori di cervelli come Dell’Utri. Interferiscono con le superiori Scuole Superiori inventate da Marcello Pera. Interferiscono con la costituenda “Università del pensiero liberale” appena annunciata da una onorevole Laura Ravetto, controfigura della vice-vice capo di Forza Italia Vittoria Michela Brambilla che ambisce, a sua volta, al posto di Sandro Bondi. Interferisce con l’intenso fiorire di cultura che non è ancora avvenuto ma - ci dicono - dovrà avvenire nei “circoli” di imminente fabbricazione presso il partito unico ex Casa delle Libertà.

Soprattutto questo darsi da fare di certi insegnanti va scoraggiato dalla destra (per una volta di mercato e non solo Dio, Patria, famiglia), come dimostra la storica frase del vice leader Fini: «La prossima volta i sindacati non ci fregano più». Infatti occorre screditare la scuola pubblica.

 

Lo sforzo anti scuola pubblica è vasto e ben congegnato. Quel brutto affare che è il bullismo avviene sono nella scuola pubblica. Solo nella scuola pubblica l’insegnante bizzarra castiga l’allievo razzista in modo sbagliato e ridicolo. E c’è sempre una maestra che fa tacere un bambino mettendogli un cerotto sulla bocca. Mai in una scuola privata.

Ora Fini, che altrimenti non comanda nulla, e che non poteva togliere al grande imputato Berlusconi la guida della celebre guerra contro i giudici, ha deciso di mettersi alla testa di una grande campagna contro gli insegnanti. Trova un terreno ben preparato dai media. In tutto il Paese, un solo giornale, l’Unità, ospita regolarmente articoli di insegnanti sulla scuola (soprattutto gli interventi di difesa della scuola pubblica di Marina Boscaino). Non ricordo alcun programma televisivo di grande ascolto che abbia mai insegnanti fra i testimoni e i protagonisti (dico: insegnanti veri, non i pochi politici che di volta in volta un po’ li difendono). E i telegiornali si precipitano una volta ogni anno sugli esami di maturità, soprattutto se è stato trovato l’errore nella traccia di un tema.

Tipica illustrazione mediatica del problema è avvertirci tramite stampa che «gli insegnanti sono un milione», senza dirci, nello stesso contesto, quanti sono gli studenti del sistema pubblico in Italia. Un milione è un grande numero. Quanti saranno, in quell’universo, i nullafacenti, oltre alle bande di “frustrati eversori”?

Precisano prontamente e sistematicamente i media: il 96 per cento delle spese del Ministero se ne va in stipendi. Il suggerimento è chiaro. L’esosità dei docenti si mangia tutto, per i ragazzi non resta nulla. È un po’ l’anatema che si vuole lanciare sugli anziani pensionati: egoisti, vi portate via ciò che spetta ai giovani. Nel caso degli insegnanti l’insinuazione è ancora più arbitraria perché rovescia la situazione vera, che è questa: per la scuola i soldi continuano ad essere così pochi che bastano appena per gli stipendi degli insegnanti. E gli stipendi degli insegnanti italiani sono tra i più bassi d’Europa.
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Proprio in questi giorni An, il partito che Fini ha definitivamente subordinato a Forza Italia (tanto che da An si è appena staccato il ramo Storace-Bontempo per dare vita al nuovo partito “La Destra”), ha presentato in Senato un suo modesto “progetto di legge” sulla scuola che si distingue (stando al Sole 24Ore dell’11 luglio) quasi solo per l’idea di far governare le scuole da consigli di amministrazione in cui siedono rappresentanti di imprese. Quali imprese, a quale titolo, perché? Fa luce, lo stesso giorno, il quotidiano Libero con l’articolo “Solo il buono-scuola può salvare l’istruzione” a cura dell’ex ministro della Difesa ed economista della scuola di Chicago, Antonio Martino.

Scatta dunque la grande offensiva contro la scuola pubblica e viene in mente, con nostalgia, quel tempo fondante della democrazia americana, quando il filosofo e pedagogista John Dewey scriveva nel suo celebre “Public School and Democracy” (1906): «La scuola pubblica è il fondamento dell’uguaglianza e della libertà».

Ma ecco come Libero e Martino motivano il progetto della destra italiana: «La scuola italiana è in crisi (si intende: la scuola pubblica, ndr). Il sistema è inefficiente, intorpidito e allergico al cambiamento, preoccupato più di tutelare gli interessi e di “livelli di occupazione” degli insegnanti anche se incapaci, e spacciano il tutto come libertà di insegnamento. È una scuola liberticida perché tende a imporre alla collettività programmi scolastici uniformi dettati dall’alto. È una scuola fortemente iniqua perché nega ai meno abbienti la possibilità di scegliere la scuola per i propri figli».

Ora sappiamo da dove il vulcano spento di Gianfranco Fini trae i materiali che intende usare contro la scuola pubblica italiana.

Libero però è un motore brillante e bene informato e ci guida, molto al di là di ciò che An desidera farci sapere (o far sapere al suo sindacato e alla sua destra sociale, che è una bella fetta di quel partito). Come abbiamo detto, l’autore dell’articolo è il fedele discepolo del guru liberista Milton Friedman. Poiché Martino è laico, e Friedman si è interessato poco di scuola e molto di “liberazione” dalle tasse, Martino non si occupa dell’altro lato della questione americana, dell’immenso favore alle scuole religiose, con l’espediente del “buono scuola”. Ci dice che tutte le scuole vanno equamente finanziate in base al numero degli alunni che vi accedono.

E tutti gli alunni possono accedervi (secondo il disegno liberista di Friedman e di Martino) in base al “buono” che ciascun allievo riceve e che “qualunque scuola” accetta. In apparenza finisce ogni distinzione fra scuola pubblica e scuola privata e fra scuola religiosa e scuola laica. In realtà si sommano ragioni logistiche (dov’è la scuola?), ragioni di programma (che cosa insegnano?), ragioni di fiducia (il mio gruppo contro gli altri gruppi, la mia fede contro le altre fedi). Se parliamo dell’America, tutto ciò produce una scuola frantumata, mille programmi diversi, la fine di quello straordinario processo di assimilazione e di omogeneità che la scuola pubblica americana riusciva a creare. E poiché ­ per ragioni costituzionali e a causa della natura multiculturale della società americana ­ la scuola pubblica di quel Paese è rigorosamente laica, ha sempre educato allo scambio di rispetto e di tolleranza, al punto da vietare le preghiere di qualunque religione prima dell’inizio delle lezioni al fine di evitare che la preghiera di un bambino fosse l’offesa alla preghiera non detta di un altro bambino, il grande argine crolla. E si verifica una corsa disordinata verso tanti tipi diversi di scuole religiose. Queste scuole ­ a volte ­ impediscono persino l’insegnamento dell’evoluzionismo, subordinano la scienza alla fede, escludono ogni contatto con fedi diverse ovvero ciò che è stato finora il punto alto della scuola pubblica democratica.

 

In altre parole, sotto le mentite spoglie dell’estremismo liberista, si finanziano a pioggia le scuole private e religiose e si priva il Paese di una scuola pubblica omogenea (“il fondamento della democrazia” di cui parlava John Dewey) con pericolo molto grande di frantumazione dell’apprendimento e di isolamento dei gruppi, delle etnie, delle culture. Ricordo l’inizio di tutto ciò: una grande campagna di screditamento e di abbandono della scuola pubblica, la stessa scuola pubblica che aveva, per decenni, avviato bambini e ragazzi di provenienze diverse, distanti, sconosciute le une alle altre, verso i numerosissimi premi Nobel americani con cognomi impronunciabili.

Gianfranco Fini è alla prima fase dell’attacco alla scuola, quella dell’insulto. Certo lo fa per l’irritazione verso una scuola che, in molte sue parti, è ancora viva. Antonio Martino gli completa la frase con l’invettiva verso “i programmi scolastici unici imposti dall’alto”. Comincia così il processo di distruzione, senza trascurare di inserire prontamente e continuamente gli insegnanti nelle categorie dei “fannulloni” o incapaci o parassiti che vivono all’ombra dei sindacati. Subito dopo si fanno avanti le scuole private, ma in Italia l’operazione è più ambigua e camuffata. La talpa privata scava un tunnel da destra sul lato del liberismo, in nome dell’impresa, e un tunnel da sinistra sul lato dei valori, della famiglia, della protezione dei giovani. Il risultato, comunque, è frantumare la scuola di tutti. L’immagine è quella della sfera d’acciaio che sbatte contro la costruzione da eliminare.

Il nascente Partito democratico ha due vie d’uscita. Una è fare della scuola pubblica, della sua difesa, del sostegno che merita, della preparazione, della carriera, della qualità, del compenso per gli insegnanti, il punto alto del suo programma, qualcosa che può davvero, a breve termine e nei tempi lunghi, cambiare l’Italia. L’altra è lasciar perdere e aspettare che questo periodo della storia italiana sia dimenticato.

 

furiocolombo@unita.it