Bambini e scuola di fronte ai media.
di Roberto Maragliano da
Educazione & Scuola dell'11/6/2007
Prendo spunto da una recente disavventura
editoriale, nella quale sono incappato assieme ad un gruppo di amici e
colleghi, per sollevare due problemi di portata generale. Uno riguarda
l’atteggiamento pedagogico nei confronti del rapporto dei bambini con
i media, soprattutto quelli di nuova e nuovissime generazione, e
l’altro ha a che fare con l’immagine, anzi le immagini circolanti in
fatto di scuola elementare.
Parto dal primo. La questione dei media e dell’infanzia, per come è
generalmente presentata, non solo nei testi professionali ma anche nei
fogli a circolazione ampia, svolge una grossa funzione assolutoria nei
confronti delle responsabilità e dunque dei peccati scolastici, che
regolarmente escono alleggeriti e impuniti dall’applicazione di questo
schema, o addirittura nemmeno riconosciuti per tali. Il meccanismo è
semplicissimo, e non fallisce mai. L’allievo non apprende, è
distratto, non sa scrivere, non vuole leggere, è irrequieto, per non
dire di peggio. Di chi la colpa? Dei videogiochi, che lo
“distraggono”. Oggi, almeno, è così. Ma ieri non andava diversamente.
Colpa della televisione, si diceva. “Ai miei tempi”, poi, era
responsabilità del cinema e dei fumetti, che infatti mi hanno
traviato, lo ammetto. Per quelli della generazione precedente la mia,
poi, la colpa era delle cattive letture e ma guarda un po’ come cambia
il mondo: sono quelle stesse letture che oggi si impongono a scuola,
con dovizia di note ed esercizi.
Personalmente ho sempre combattuto questo punto di vista. Per due
ragioni.
Uno. Perché, il più delle volte, esso coincide con un pregiudizio di
fondo, in base al quale il male, ammesso che sia tale, verrebbe sempre
dal di fuori e il mezzo ne sarebbe veicolo, ovviamente per ragioni
bassamente commerciali: Freud, insomma, sarebbe vissuto inutilmente. E
non solo lui! Non basta. Appunto in quanto pre-giudizio questo schema
di pensiero non è suffragato da dati di fatto, né sente il dovere di
garantirsi un impegno di osservazione/interpretazione, per esempio,
del modo in cui viene effettivamente trattato, dai media “distraenti”,
il tema osteggiato (violenza e corporeità, il più delle volte), e del
tipo di rapporto che, tramite l’intermediazione dello strumento, il
bambino reale, non quello ideale dei documenti (pseudo)psicopedasocioantropologici,
intrattiene con il tema stesso: basterà osservare, a questo proposito,
che nei ricorrenti e apocalittici discorsi sui videogiochi come
generatori di aggressività si dimentica regolarmente il fatto che sono
“giochi” e che la violenza, lì, se mai c’è, è appunto “messa in
gioco”; né viene mai detto, dal savonarola di turno, se quei giochi
lui li ha mai provati, e direttamente. Ma non ci si scandalizzi. Lo
stesso era, ieri, per la tv e per i diffusissimi manuali, scritti da
pedagoghi dello schermo che mai avevano visto un cartone, né un
bambino che vede un cartone; quegli stessi “esperti” che hanno
contribuito a diffondere idee balzane, per esempio sui cartoni
giapponesi, come il fatto che quei prodotti venissero realizzati al
computer (cosa per nulla vera), o che introducessero surrettiziamente,
nei nostri angioletti, pensieri alieni ed alienanti, ecc.
Due. Perché questo modo di pensare introduce (e introduce a) un
atteggiamento fatalistico, del docente e dell’educatore, nel confronti
dello status quo: chi impara impara, chi non impara non impara. Di
qui, il passo al definitivo annullamento della capacità di reazione
pedagogica è breve. Infatti, cosa mai potrebbe fare la scuola, si
ritiene in base al suddetto pregiudizio, che reazione potrebbe mai
innescare, con i suoi limitatissimi strumenti, di fronte a ciò che
produce/induce lo strapotere dei media? Insomma, quel che viene fuori
da questo cortocircuito ideologico è che, a distanza di qualche
decennio, la profezia dei descolarizzatori si sta attuando. E nel
peggiore dei modi. Non è il caso di reagire?
La mia idea (e di pochi altri, almeno tra quelli che scrivono gazzette
e libri) è che uno dei modi di reagire a questo stato di cose sia di
non dare credito alle leggende urbane di tipo complottistico e che la
prima cosa da fare, per chi voglia conoscere il mondo, sia di
interrogarlo. Il che servirebbe anche a far cadere le leggende urbane.
Dunque, se uno intende conoscere il bambino di oggi deve cercare di
conoscere con chi e con che cosa lui si accompagna. Oggi e non ieri.
Insomma, il docente, il genitore, l’educatore, direi tutti noi,
indipendentemente del ruolo pedagogico che ciascuno svolge dovremmo
fare uno sforzo per conoscere i media attuali, frequentarli,
parteciparli, condividerli. Dovremmo tenerli costantemente sotto
osservazione. Studiarli. Come si studiano le mosse di una persona su
cui ci poniamo degli interrogativi. Videogiochi, siti web, cartoni,
fumetti, film, pubblicità sono la lingua dei nostri bambini: non è
cosa che sosteniamo sempre? E allora, come possiamo pensare di parlare
a questi bambini, venendo capiti, se quella lingua noi nemmeno la
frequentiamo? E non veniteci a dire che tutto questo si risolverebbe
con un’oretta di educazione ai media o con un bel manualetto (un
altro!). Chi volete prendere in giro? Potrebbe mai educare ai media
chi i media non frequenta mai? Potrebbe mai educare ai videogiochi chi
non ha mai toccato una consolle, o educare alla tv chi non abbia mai
seguito un serial animato? Potrebbe mai educare all’immagine e alla
densità delle sue connotazioni il ricorso a schemi analitici di tipo
grammaticale o a formule retoriche? E poi, riconosciamolo, sono gli
stessi media, soprattutto quelli di ultima generazione, ad educare ai
media: c’è bisogno dell’educatore senza esperienza per educare il pupo
ad usare un videogioco? Nessun consiglio, nessuna istruzione esterna
funziona meglio di quelle che vengono dall’interno del gioco.
Piuttosto, il problema è, per l’adulto, almeno per quello sensibile,
di farsi bambino e dunque di imparare (reimparare) a giocare,
mettendosi (rimettendosi) in gioco, per capire quale è il frutto di
questa autoeducazione al mezzo tramite il mezzo, e scoprire dunque in
se stesso quanto c’è dentro e attorno una forma di conoscenza molto e
multi mediata, aperta, avvolgente, coinvolgente, come quella che viene
dalla frequentazione dei media interattivi. Convertendosi a questo
approccio, l’educatore riuscirebbe ad intuire, ne sono sicuro, come
simili esperienze di tipo informale, che appartengono alla
quotidianità dei bambini, possano e debbano funzionare da base per
processi di più pronunciato impegno riflessivo, orientati verso
pratiche di formalizzazione, come quelli che solo una buona scuola,
aperta e non chiusa al mondo, non ricattata da schemi di basso consumo
pedagogico, sarebbe in grado di definire e mettere in atto. Lo so
bene. Questa che io propongo è un’utopia, almeno allo stato attuale.
Ma, lasciatemelo dire, sarà ben meglio indulgere all’utopia che cedere
alla rassegnazione!
Passo all’altro tema “di cornice”: quello dell’immagine della scuola
elementare nazionale. Anche qui circolano leggende varie, tra le quali
c’è quella che dipinge l’italica scuola primaria come una
un’istituzione “buona”, funzionante, solida, che il ministro di turno
può regolarmente mettersi all’occhiello. Non voglio dire che questo
quadro sia poco realistico. Dico solo che non tutto è così limpido e
pulito come ci si ostina a credere, e far credere. Mi limito ad un
solo esempio controtendenza, legato ad una questione che non dovrebbe
essere vista come opposta a quella trattata prima (anche se quasi
sempre è intesa in questo modo): è l’esempio dell’editoria di settore.
Questo ordine di scuola sconta tuttora il retaggio di una ottocentesca
misura, la gratuità del libro di testo, che novecentescamente è stata
tradotta con il permanere di un oligopolio editoriale che, nel
dividersi una misera torta, fa poco, pochissimo investimento sulla
crescita culturale e tecnologica dell’istituzione e dunque
sull’elevazione professionale dei docenti. Come negarlo? Già un quarto
di secolo fa, in occasione della redazione dei programmi dell’85 per
la primaria alcuni dei membri dell’allora commissione tentarono di
allargare il tema “amministrativo” dei contenuti alla questione
“normativa” dei mezzi deputati a veicolarli: era ed è ancora il nodo
dell’editoria. Inutilmente. Da allora le cose si sono ulteriormente
complicate. Ancora nel 2007 lo stato regala in cinque anni ai nostri
piccoli, a tutti, anche quelli che vengono da famiglie ricche
sfondate, un pacchetto di libri che, oltre a non coprire tutto l’arco
dell’insegnamento (dunque altri se ne devono comprare, poi), ha un
valore reale che non supera quello di un corredo scolastico annuale di
qualità media. E vada pure, per questo. Ma c’è pure, e gravissimo, il
fatto che una tale miseria di investimento consente ai detentori
dell’oligopolio di tenere bassissimo il livello dei loro prodotti e
bassissimo, di conseguenza, il livello di consapevolezza dei loro più
ingenui utilizzatori. A fronte di quei libri e di quelle rivistine
professionali il più sgangherato prodotto di consumo è un trionfo di
cultura e bellezza. Ci vuole molto coraggio (o insipienza) nel pensare
che il bambino cresciuto dentro media che investono patrimoni
sull’interfaccia possa essere rieducato da quei libri lì, senza
interfaccia decente. E qui non parlo che della parte grafica. Quanto
ai contenuti…beh, lasciamo perdere!
Conclusione. Si discuta pure delle novità delle Nuove Indicazioni
(anche se, io credo, il confronto risulterebbe più realistico se si
provasse a portare il giro delle opinioni oltre i recinti del
villaggio scolastico e se i lettori più avveduti provassero a
scorporare dal documento dello scorso aprile il primo e l’ultimo
paragrafo, cogliendo quel testo per ciò che effettivamente è e intende
dire). Ma, mi chiedo e vi chiedo, non sarebbe il caso di trovare tempo
ed energia per trattare anche il problema di un distacco sempre più
netto tra il bambino concreto dei media e quello ipotetico di una
scuola critica nei confronti di tutti i media fuorché del medium libro
che le si fa adottare?