Principi formativi debbono cominciare a essere impartiti nella scuola primaria
e divenire parte integrante dell’insegnamento dell’italiano e della storia

Educare alla Storia dell’arte.

Cesare De Seta, la Repubblica, 29/1/2007

 

In un’intervista Francesco Rutelli, ministro per i Beni e le Attività culturali, a cura di Maria Novella De Luca (1 XI 06), diceva: "Bisogna tornare a studiare la storia dell’arte nelle scuole, è incredibile che in un paese come il nostro questa materia sia ridotta a pochissime ore di lezione nei licei classici, e sia del tutto assente in molti indirizzi scolastici. Ho già parlato con i vertici del ministero dell’istruzione, e credo ci siano le possibilità per dare un seguito concreto alla proposta". È incredibile davvero che a questa mortificante condizione si sia giunti nonostante l’insegnamento della storia dell’arte in Italia sia stato un esempio da seguire e adottare nei loro paesi per studiosi come André Chastel e Ernst Gombrich. Ma questa deriva ha una lunga storia alle spalle in cui le ore (poche) destinate a questo insegnamento sono state lentamente erose e annacquate. Il ministro Moratti proseguì su una strada già sventatamente aperta: nominò una pletorica Commissione alla quale non aderii nonostante il gentile invito.

Dunque, per farla breve, bisogna ripartire da zero e i ministri Rutelli e Fioroni hanno l’occasione di passare alla storia della Repubblica come coloro che possono raddrizzare le gambe ad un cane, perché tale è l’insegnamento della storia dell’arte allo stato attuale in Italia.

Il primo obiettivo, nella medesima intervista, viene ulteriormente precisato: "Un ragazzo che vive a Spello deve saper leggere la piazza di Spello, un giovane calabrese deve conoscere Sibari e sapere che cos’è stata la Magna Grecia". Il riferimento è a quel sano "regionalismo" che è l’essenza stessa della nostra composita patria come ci hanno insegnato Carlo Cattaneo per primo e più di recente Carlo Dionisotti: infatti accanto alla Magna Grecia ci sono i Longobardi e i Goti, i Bizantini e gli Arabi, gli spagnoli, i francesi e gli austriaci. L’Italia è un serto di civiltà e la civiltà che possiamo definire italiana tout court nasce da queste semenze con i liberi Comuni medievali.

Se questo è vero principi formativi debbono cominciare a essere impartiti nella scuola primaria e divenire parte integrante dell’insegnamento dell’italiano e della storia: non come vaghi cenni… ma appunto come parte integrante della formazione dei ragazzi anzi dei "piccini" come li ama chiamare Arbasino.

Alle elementari il bambino impara a far di conto e a leggere, ma parimenti dovrà sapersi guardare intorno e educare i suoi occhi a vedere: la cultura visiva degli italiani è infatti, al pari della cultura musicale, del tutto impari alla straordinaria e plurisecolare tradizione del Bel Paese. Nelle scuole superiori il cursus formativo dovrà associare la storia medievale e la lingua di Dante a Giotto, le guerre per la conquista dell’Italia ai nomi di Tasso e Ariosto, a quelli – non meno rilevanti – di Michelangelo e Tiziano. E via dicendo fino a tutto il Novecento. Se fino a quindici anni nelle giovani coscienze dei nostri ragazzi saranno piantati questi semi, sarà assai facile accorgersi che il loro sapere crescerà rigoglioso con molti rami e darà molti frutti.

Sarà dunque conveniente destinare poi alla storia dell’arte un congruo numero di ore, distribuite nei cinque anni di studio (dai 15 ai 18 anni) per ogni tipo di indirizzo, fino a quello che si chiama ancora esame di maturità e che auspichiamo possa divenire di nuovo una prova seria come già annunciato dal ministro competente.

La dizione corrente di storia dell’arte ha una sua tradizione secolare e un radicato fascino, ma oggi la storia dell’arte non è più quella che aveva formalizzato la riforma Gentile sul modello neoidealistico di personalità e geni: è un albero assai più ricco e complesso che non esclude le grandi figure.

Ai fini didattici in primo luogo adotterei il plurale arti, capace di inserire segmenti espressivi che non sono compresi nelle canoniche pittura, architettura e scultura, ma che pure sono parte essenziale – come la fotografia e il cinema – della nostra quotidiana esperienza.

Ancora. Il nostro è un paese che si riconosce dal paesaggio che ci circonda e dalle città in cui viviamo: essi sono scena essenziale di tele e affreschi, e compaiono in foto e in film. Tanto che Paesaggi e Città sono l’espressione più immediata e riconoscibile della nostra civiltà ed essi – nella loro smagliante varietà – sono koiné visiva della nostra identità nazionale: in essa siedono Cimabue e Antelami, Juvarra e Canova, Boccioni e Terragni. Sono specchi i termini evocati che si riflettono l’uno nell’altro in un caleidoscopio di rimandi che bisogna imparare a riconoscere e a leggere.

Sperando nel consenso dell’ANISA, meritevolissima associazione degli insegnanti di storia dell’arte, mi permetto di avanzare la seguente proposta: che il venturo e tutto da rifondare insegnamento possa assumere la seguente dizione: Storia delle arti e dei paesaggi, dove con paesaggi s’intende sia quello naturale che quello urbano.