Il rilancio della cittadinanza attiva.

Senza un rinnovamento della pedagogia civile e sociale, tarderà ancora a venire alla luce un reale progetto di riforma e soprattutto ad essere seriamente applicato. Senza una comune fede nel rispetto della dignità delle singole persone umane, che riunisca credenti e non credenti, difficilmente si potrà ricreare lo spirito che portò alla scrittura della nostra Carta Costituzionale.

di Salvatore Nocera* da Superando dell'8/1/2007

 


Dopo  avere ascoltato il discorso augurale per il 2007 del presidente della Repubblica
Napolitano, ho riletto alcune mie riflessioni preparate per un seminario svoltosi a suo tempo presso la Fondazione Emanuela Zancan di Padova e vorrei qui riproporle ai lettori.

La cittadinanza è misurabile dagli spazi di partecipazione realizzabili legalmente o di fatto dai membri della comunità, che debbono poter accedere a fonti di informazione certe, per poter valutare e decidere sia sulle scelte politiche che su quelle economiche e di vita civile.

Sotto questo profilo, negli ultimi anni, e ancora nei tempi più recenti, abbiamo assistito ad un calo di partecipazione - e quindi di cittadinanza - di fronte a gravi scandali finanziari, a tentativi di scalate alle banche, a scandali in campo edilizio, sportivo e delle telecomunicazioni.

Se si supera il concetto formalistico di cittadinanza giuridica e si guarda al valore della dignità delle persone, la cittadinanza viene negata a decine di migliaia di stranieri che, specie se clandestini, vivono tra noi come dei paria e talora degli schiavi.

Inoltre, dalla Campania in giù, la criminalità mafiosa nelle sue forme diverse, ma sostanzialmente uguali, condiziona fortemente la partecipazione non solo alla vita politica, ma anche a quella della vita civile quotidiana, con le persone che rischiano in ogni momento la vita a causa delle lotte fra bande e del mancato controllo del territorio da parte delle istituzioni.

Contro queste diverse forme di negazione o forte limitazione della cittadinanza, le riforme costituzionali introdotte dalla Legge Costituzionale 3/2001 possono molto, ma non tutto. Possono molto, perché la piena attuazione degli articoli dal 117 al 120 della Costituzione offrono strumenti di tutela alle fasce deboli.

Si pensi ad esempio alla formulazione dei livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali, che però non sono stati ancora definiti e quindi non offrono in concreto le garanzie previste. Oppure si pensi all’individuazione dei Comuni singoli o associati come responsabili del progetto globale di vita dei cittadini, attraverso l’esercizio della titolarità delle funzioni amministrative, prevista dall’articolo 118, sostenute dall’autonomia finanziaria, di cui all’articolo 119, che però non sono state ancora realizzate, rimanendo le due norme costituzionali sulla carta.

Si pensi inoltre al fondo perequativo e degli specifici interventi a favore dei territori più deboli, previsti dall’articolo 119, che però ancora non decollano o agli interventi sostitutivi dello Stato nei confronti di Enti Locali e Regioni inadempienti nel rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali, per il cui esercizio manca ancora la legge che ne regoli ambiti, limiti e procedure.

E si pensi ancora al principio della sussidiarietà verticale sancito dall’articolo 118, che però non può essere concretamente esercitato dagli enti territoriali diversi dallo Stato per la mancanza della piena autonomia finanziaria e amministrativa. I Ministeri, infatti, conservano ancora una massa di poteri che dovrebbero essere definitivamente trasferiti ai soggetti istituzionali di livello inferiore, liberando anche, a loro favore, risorse finanziarie e umane.

Si pensi infine al principio della sussidiarietà orizzontale, sancito anch'esso dalla Costituzione, al comma 4 dell’articolo 118, che però nella pubblicistica scientifica e nei mezzi di comunicazione, viene, a  mio avviso, eccessivamente "divinizzato", sembrando talora che possa e debba sostituirsi agli interventi delle pubbliche istituzioni.

Partecipando a numerosi convegni si ha ad esempio l’impressione che vi sia un’eccessiva esaltazione degli interventi dell’«autonoma iniziativa dei cittadini singoli o associati per lo svolgimento di attività di interesse generale». Certo, credo sia ormai corretto pensare che l’individuazione dell’interesse generale non debba più essere monopolio dello Stato o dell’oligopolio delle Regioni, ma si assiste talora ad iniziative promosse più in contrapposizione a quelle istituzionali pubbliche o per la gloria di apparire e comunque frutto di una visione molto parziale e talora frammentaria dell’interesse generale.

La denuncia di talune forme di deriva economicista di crescenti strati del volontariato organizzato e della cooperazione sociale debbono far riflettere sul rischio di perdita di taluni valori di solidarietà, sotto l’incalzare della pressione degli interessi particolari.

Sembra farsi sempre più evidente come taluni valori affermati dall’Illuminismo settecentesco o quegli stessi del solidarismo, nella seconda metà del Novecento, possano essere risucchiati dalle «logiche  degli interessi particolari di singoli o di gruppi», evidenziate dalla sociologia dell’Ottocento.

La regolamentazione degli interessi economici di singoli in campo politico attende da anni una legge sul conflitto di interessi. Questa, se venisse scritta seriamente e ponesse le “autorità” antitrust - sulla concorrenza e sui mezzi di comunicazione - in condizione di operare effettivamente, potrebbe garantire ai cittadini una maggiore corretta informazione, una maggiore libertà economica e quindi una maggiore partecipazione e cittadinanza.

La lotta agli interessi organizzati in corporazioni dovrebbe anch’essa garantire maggiori spazi di libertà ai cittadini. Le reazioni dei tassisti prima, dei notai e degli avvocati poi, stanno però fortemente condizionando questi tentativi di liberalizzazione. Si pensi che oggi se un professionista volesse svolgere attività volontaria e gratuita a favore di fasce deboli di popolazione, rischierebbe sanzioni disciplinari da parte degli ordini professionali che pretendono il rispetto dei minimi tabellari.

Perché dunque le norme introdotte nella modifica del Titolo V della Costituzione [«Le Regioni, le Provincie, i Comuni», articoli 114-133, N.d.R.] abbiano la possibilità di decollare e di non arenarsi subito dopo la loro approvazione, occorre una forte tensione morale e politica simile a quella che ruppe i ceppi delle politiche tradizionaliste e di carità compassionevole con la contestazione del Sessantotto. Noto però talune manifestazioni velleitarie, come i cosiddetti "girotondi” (mentre i poteri economici forti nel frattempo aggiustano i propri interessi...) o alcuni "proclami" rivoluzionari dei neoministri subito dopo la loro nomina, presto smentiti dal ministro dell’Economia o da altri esponenti dell’attuale maggioranza di governo.

Anche la riscoperta del valore della nonviolenza, tipico degli Anni Sessanta, malgrado le attuali affermazioni dei pacifisti, mi sembra si stia annacquando. Basti vedere come ormai tutti accettino senza interrogativi il principio di "guerra giusta", con contenuti certo diversi dai sostenitori dei secoli passati, ma che fu l’assillo della contestazione pedagogica e religiosa di don Milani e di padre Balducci che formarono la gioventù degli Anni Sessanta e Settanta.

Senza un rinnovamento della pedagogia civile e sociale, le riforme volute dalle modifiche costituzionali tarderanno a venire alla luce o ad essere seriamente applicate. E questa rinnovata pedagogia morale e sociale dovrebbe dar vita ad un movimento in cui veramente credenti e non credenti in Dio sappiano portare avanti le riforme, spinti dalla comune fede nel rispetto della dignità delle singole persone umane. Una rinnovata pedagogia che dovrebbe orientare tutti i credenti al dialogo interreligioso il quale, pur avendo portata planetaria, ha ormai in Italia un suo campo di azione concreta.

E tuttavia, a mio sommesso avviso, noi cattolici non possiamo andare a questo dialogo teorico-pratico con la convinzione di possedere noi soli la verità e la correttezza della prassi. Basterebbero a smentirlo i fatti storici dei secoli passati, che adesso ci vengono rinfacciati polemicamente, come le Crociate, l’Inquisizione, i roghi, le discriminazioni delle donne in campo sociale e politico, l’omicidio per causa d’onore con pene irrisorie, previsto sino a qualche anno fa dal nostro Codice Penale.
Se ci riconosciamo, da credenti,
tutti figli di Dio, dobbiamo avere il coraggio di ammettere i nostri errori storici, come ha avuto la forza di fare papa Giovanni Paolo II, e dialogare con altri credenti diversi da noi in vista della costruzione di una società più giusta.

Non vedo però oggi quella grande disponibilità al dialogo politico e culturale che consentì ai Padri Costituenti di darci una Carta che offre ampi spazi di partecipazione e cittadinanza per tutti.

Forse la presa di conoscenza della gravità delle emergenze appena accennate all’inizio di queste righe potrebbe costituire il clima ideale, come lo fu allora la consapevolezza dei disastrosi effetti della guerra, per far sì che le modifiche costituzionali non rimangano sterili strumenti formali, ma diano i frutti per una maggiore partecipazione e un’effettiva cittadinanza per tutti quanti vivono sul nostro suolo.

In questo senso il discorso del Capo dello Stato ha suscitato in me grandi speranze sulla presa di coscienza dei nostri gravi  problemi attuali da parte dell’opinione pubblica e della volontà di riprendere con coraggio nelle nostre mani il rinnovamento del nostro domani.

* Vicepresidente nazionale della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell'Handicap).