La via burocratica alla produttività.

 di Tito Boeri e Pietro Garibaldi da La Voce del 9/2/2007

 

Affinché il tavolo sulla riforma del pubblico impiego non sia un ennesimo esercizio di retorica, bisogna che il baricentro si sposti dai contratti e dalle regole del rapporto di lavoro individuale agli incentivi forniti alle amministrazioni, i cui dirigenti vanno dotati di poteri manageriali effettivi. L'esatto contrario del memorandum sottoscritto fra governo e sindacati. Nei prossimi cinque anni andranno in pensione circa 400mila persone. Da come e in quale percentuale verranno rimpiazzate dipende il futuro della nostra pubblica amministrazione.

Fra una settimana si dovrebbe aprire il tavolo sulla riforma del pubblico impiego. Dovrebbe tradurre in termini operativi le belle parole ("ottimizzazione dei servizi", "profonda riorganizzazione nell’ambito di azioni coerenti ed omogenee") contenute nel memorandum siglato dal ministro della Funzione pubblica Nicolais e dai sindacati il 18 gennaio scorso.

Di buoni intenti sono lastricate le trattative sul pubblico impiego. Nella pratica le cose sono andate nella direzione opposta: le retribuzioni pubbliche sono cresciute negli ultimi cinque anni quasi il doppio che nel settore privato (link Tronti), mentre non ci sono indicazioni di miglioramenti nella qualità dei servizi. Ad esempio, continuiamo a spendere in istruzione obbligatoria quanto i paesi nordici, in rapporto al Pil, ma i nostri diplomati hanno performance del 20-30 per cento inferiori nei test internazionali.

 

I fallimenti di questi anni

Qualche tentativo è stato fatto in questi anni per migliorare la qualità del lavoro pubblico. Ma sono tutti falliti. Si è proceduto nella contrattualizzazione del rapporto di lavoro, per cui l’esito del negoziato fra l’agenzia pubblica, l’Aran, e i sindacati diviene efficace senza la necessità di un formale recepimento legislativo. Si sono adottati schemi retributivi nei quali, in linea di principio, giocano un peso importante le componenti accessorie dirette a premiare incrementi di produttività. Sono stati introdotti un nuovo sistema di controlli interni ed esterni delle amministrazioni pubbliche e un nuovo stato giuridico per i dirigenti.
I risultati di queste innovazioni sono rimasti sulla carta. Nelle
retribuzioni è, ad esempio, cresciuto molto il peso delle componenti accessorie dirette a premiare incrementi di produttività. Cosicché nel triennio 2000-2003, più di metà degli incrementi dello stipendio del personale degli enti locali (70 euro su 120) sono stati erogati in base a premi di produzione e questi "trattamenti accessori" oggi rappresentano poco meno di un quinto della retribuzione complessiva.

 

La parodia dei premi di produttività

Ma nulla è cambiato in pratica. Semplicemente perché queste innovazioni legislative vengono utilizzate dalle amministrazioni in modo distorto. Il sistema dei controlli è largamente auto-referenziale. I "premi di produzione" non si basano sulla definizione ex-ante di obiettivi misurabili e rilevanti all’esterno dell’amministrazione, al cui raggiungimento viene subordinata la concessione del premio. Al contrario, si concedono premi o aumenti retributivi alla generalità dei dipendenti, sulla base dei risultati misurati da indicatori di performance o di "progetti" definiti ad hoc e spesso rinnovati da un anno all’altro alla bisogna. La mobilità di carriera, contemplata dalle riforme di questi anni, avviene con passaggi di qualifica generalizzati, spesso celati dietro il velo di concorsi interni di dubbia selettività. Si tratta, in realtà, di un recupero surrettizio del ruolo tradizionale dell’anzianità di servizio nel determinare la dinamica retributiva, mascherato, nella retorica delle discussioni sulle retribuzioni nel pubblico impiego, dal riferimento alla nozione della produttività. Per la finanza pubblica, e per la trasparenza delle remunerazioni del pubblico impiego, è peggio del legame esplicito fra retribuzioni e anzianità di servizio che esisteva in passato.

 

Il memorandum riduce l'autonomia dei dirigenti

L’uso distorto di queste innovazioni ha due fonti: i) nulla è più opinabile della misura della produttività nel pubblico impiego, e ii) le amministrazioni continuano ad avere incentivi distorti.
La nozione di produttività del dipendente pubblico continua a essere circondata da un’ipocrisia sacrale. Si regge sulla pretesa che la produttività del singolo dipendente pubblico sia facilmente misurabile e che esistano schemi generali validi per tutti i settori. Due assunti palesemente non veri.
Inoltre tutti i tentativi fatti sin qui e quelli oggetto di discussione, fra cui la stessa istituzione dell’Authority , affrontano gli incentivi individuali ma non quello delle amministrazioni nel loro complesso e non offrono ai dirigenti di queste amministrazioni l’autorità per gestire politiche retributive davvero differenziate in base alla produttività dei singoli dipendenti. Addirittura il memorandum sottoscritto il 18 gennaio ha ridotto ulteriormente l’a
utonomia dei dirigenti, laddove afferma che "le riorganizzazioni interne ai Dipartimenti saranno oggetto di preventiva informazione e concertazione con le organizzazioni sindacali" e si afferma la necessità di affiancare ai poteri di gestione della dirigenza "adeguati sistemi di garanzia, nell’ambito delle relazioni sindacali". Come dire, siamo noi a decidere.

 

Dagli individui alle amministrazioni

Per attuare davvero una riforma del pubblico impiego bisogna invece rafforzare il ruolo dei dirigenti, veri e propri manager, delle amministrazioni decentrate della Pa e fornire gli incentivi giusti, subordinando gli stanziamenti alle singole amministrazioni a risultati che sono molto più misurabili se rapportati all’operato di una amministrazione piuttosto che di un singolo dipendente pubblico.
Rispetto a dieci anni fa, lo stato giuridico dei dirigenti è oggi profondamente diverso, ma il nuovo status si è tradotto in incrementi retributivi molto sostanziosi, in alcuni casi superiori al 50 per cento, giustificati da "indennità di funzione", "retribuzione di risultato" e "premi di produzione" (ancora la parodia della produttività) senza che nella realtà il loro ruolo effettivo e i loro poteri siano cambiati di molto. Mentre è aumentata molto la produzione negli uffici di carte su definizione e verifica di obiettivi.

 

Che fare?

È possibile fissare obiettivi chiari e verificabili a livello di amministrazioni nel loro complesso per quei servizi diffusi sul territorio dove vi è un rapporto diretto coi cittadini: la sanità, la scuola, la giustizia. L’output da misurare è legato alla quantità e qualità dei servizi forniti agli utenti (i tempi di attesa, i risultati degli studenti nei test internazionali, eccetera) mentre la diffusione nel territorio dei servizi permette confronti e operazioni di benchmarking. In questi casi, mediante anche il coinvolgimento di utenti ed osservatori privilegiati come proposto da Pietro Ichino , sarà possibile subordinare la concessione alle amministrazioni di risorse per premi di produzione al raggiungimento degli obiettivi, lasciando al dirigente locale, che è nella posizione migliorare per valutare l’operato dei singoli, la facoltà di scegliere come distribuire i premi fra i dipendenti e maggiore discrezionalità nelle assunzioni.

Nelle prestazioni dove non c’è alcun rapporto diretto coi cittadini, né diffusione sul territorio, meglio magari mantenere schemi retributivi più tradizionali, senza cadere nella retorica dei premi di produttività. In questi casi bisogna compiere una mappatura degli esuberi. Ad esempio, il governo potrebbe stabilire che c’è un’eccedenza al ministero dell’Economia di 600 persone e ancora di più al ministero dell’Agricoltura oppure considerare l’eliminazione delle direzioni regionali dei vigili del fuoco.

Le scelte, inevitabilmente discrezionali, dell’esecutivo dovranno essere soggette al controllo dell’opinione pubblica che dovrà essere messa in condizione di valutare non solo la qualità dei servizi effettivamente resi, ma anche la congruità delle remunerazioni dei singoli dipendenti. Ciò significa anche una migliore informazione sulle retribuzioni dei pubblici dipendenti. Oggi le fonti ufficiali forniscono dati sulle retribuzioni medie per comparto (ministeriali, scuola, e così via), ma nulla sui differenziali retributivi per qualifiche e sulla loro dinamica, che possa servire a riflettere sulla loro giustificazione. L’Istat dovrebbe prossimamente pubblicare indici del costo della vita per macroaree. Potranno essere utilizzati per evidenziare la natura dei differenziali retributivi nel pubblico impiego a parità di potere d’acquisto. Oggi un insegnante viene remunerato, in termini di potere d’acquisto più a Palermo che a Milano.

È adesso il momento di fare una vera riforma del pubblico impiego perché nel prossimo futuro cresceranno in misura significativa i pensionamenti nel settore: si stima che nei prossimi cinque anni andrà in pensione un dipendente pubblico su otto, ovvero circa 400mila persone. Da come e in quale percentuale verranno rimpiazzate dipende il futuro della nostra pubblica amministrazione.
 

Allegati:
Memorandum 18 gennaio  - 31,24 KB -