La generazione senza nome.

Ilvo Diamanti, la Repubblica, 11/2/2007

 

All´improvviso sembrano diventati estranei. E li guardiamo con un po´ di apprensione. I giovani. I più giovani. Le cronache che rimbalzano sui media raccontano storie crude, ciniche, sconcertanti. Ragazzi che ammazzano un poliziotto fuori dallo stadio; in uno scenario da guerriglia urbana. Recitando riti che si ripetono, da anni, una domenica dopo l´altra, con regolarità, negli stadi.Nelle scuole, storie di ordinario "bullismo". Ai danni di altri ragazzi, abili e disabili. E dei loro insegnati. Storie di violenze, di esibizioni erotiche, spesso coatte e talora no, riprese con la videocamera del cellulare. Riprodotte e diffuse all´infinito. Per mms. Oppure in rete, su internet.
Raccontano, i media, storie di criminalità commesse, nelle periferie di Napoli e in altre banlieues metropolitane, da ragazzi. Minorenni. E, ancora, esplodono storie estreme. Giovani che ammazzano i genitori (e viceversa). Disintegrano la nonna a martellate, per pochi euro. Da spendere al bar del paese. Storie diverse, che hanno ragioni diverse. La società adulta tende a riassumerle dentro a una sola, unica categoria. La sindrome dello sconosciuto che conosciamo. Dello straniero che abita con noi. Insieme a noi. A casa nostra. Così ci appaiono, sempre più spesso, i più giovani. I ragazzi. Stranieri. Così li raccontano i media, che proiettano, in questo modo, le nostre ombre e le nostre paure. Eppure, mai come nella nostra epoca la società adulta ha dedicato tanta attenzione ai figli. Sarà perché ormai, in Italia, sono una rarità. Uno per coppia, in media. Concepito quando i genitori hanno più di trent´anni e diventano, forse anche per questo, più apprensivi e invadenti. Un quindicenne, oggi, ha due genitori di 40-50 anni, quattro nonni di 70 anni. A volte ha un bisnonno di 90. Quattro generazioni. Ma non ha fratelli. Spesso, non ha cugini e neppure zii. E´ l´ultimo anello di una catena generazionale lunga. Tutti sono legati a lui. E lui è il legame per tutti. Si sente protetto. Anche troppo. Anzi: un po´ oppresso. Tanti anelli concatenati. Lui se ne sta in fondo: difficile provare la stessa solidarietà di un tempo, fra generazioni così lontane. Separate da una distanza di stili di vita, cultura, competenze tecniche molto più lunga di quella biografica.
Noi non ci accorgiamo di quanto sia "malato" il nostro rapporto fra generazioni. Ce lo rammentano le parole di Roland Minka, camerunese che vive nell´Alta Padovana (raccolte da Francesco Jori su Repubblica): «Avete i figli più coccolati del mondo e i vecchi più abbandonati». Semplice e brutale.
Ma vero. Ad eccezione di un particolare, importante. Che tanta pressione sui figli non implica relazione. Comunicazione. I figli con cui abbiamo contatti quotidiani. Destinati a "risiedere" presso di noi sempre più a lungo (circa metà di loro, a trent´anni, abita ancora con i genitori). In effetti, li conosciamo poco. Perché il dialogo fra giovani e adulti è spesso intermittente e reticente. Si dialoga poco. Si parla senza ascoltare e senza essere ascoltati. I figli. Li abbiamo accanto, spesso: a casa, quando camminiamo oppure viaggiamo in auto. Ma, in effetti, loro stanno altrove. Ipod e cuffie, ascoltano la "loro" musica. Messaggiano. Come se noi non ci fossimo. Poi, non si "baruffa" più come una volta. Oltre i due terzi dei genitori affermano di «non discutere quasi mai in modo acceso con i figli» (Indagine Demos-Coop, dicembre 2006, campione nazionale, 1500 persone). Si isolano i temi critici, della convivenza, e si rinuncia ad affrontarli. Per evitare la fatica del conflitto. Poi, mancano modelli, valori, persone in cui credere. Pietro Citati, su Repubblica, ha descritto, di recente, una società dove l´autorità si è perduta.
E´ una considerazione largamente condivisa. Quasi 7 italiani su 10 (e 6 fra i giovani sotto i 25 anni) condividono l´idea che, «rispetto ad un tempo, i genitori di oggi hanno meno capacità di farsi ascoltare dai figli» (Indagine Demos-Coop, id.). Certo, si tratta di opinioni un po´ stereotipate. Cose che si dicono, perché la nostalgia fa sembrare il passato migliore. Soprattutto agli adulti, che un tempo erano - certamente - più giovani. Però la difficoltà di proporre esempi credibili è reale. Anche perché, oltre ai riferimenti di valore, mancano ambienti che offrano loro integrazione e identità. In un sondaggio recente (Demos - Repubblica, novembre 2006, campione nazionale, 1500 persone) è stato chiesto agli intervistati i due ambienti a cui si sentissero maggiormente legati: l´Italia / la città/ la chiesa-la religione / la classe sociale/ l´organizzazione, la categoria professionale / la squadra di calcio / il partito, il movimento politico. Fra i più giovani (15-24 anni), per prima viene la città, poi l´Italia (nella popolazione la classifica è invertita).Poi la squadra di calcio: 17,3% (nella popolazione: 10%), appena sopra alla religione: 17,2% (popolazione: 29,2%). In fondo, prevedibilmente, la politica: 6,9% (popolazione: 5,7%). Tra i giovani, dunque, la religione, che un tempo (e neppure molto tempo fa) costituiva un riferimento privilegiato dal punto di vista "sociale", oltre che della fede e dei valori, oggi sta sullo sfondo.
Superata dalla passione per il calcio. Che offre, a modo suo, una bandiera, una "fede", motivo di aggregazione e di militanza. Per non parlare della politica. Che proprio non dà emozione. Peraltro, i giovani, soprattutto gli studenti, hanno espresso, negli ultimi anni, alti livelli di partecipazione, su temi di rilevanza universale: la pace, il diritto allo studio. Inoltre, frequentano l´associazionismo volontario, spesso di matrice cattolica. Ma è come se partecipazione e politica, volontariato e religione appartenessero a sfere diverse. Per cui, in cerca di appartenenza, si rifugiano: nella città che abitano; nella squadra per cui tifano.
Poi, oggi non c´è una figura pubblica: un leader politico, un uomo di cultura o di religione, che conti, per loro, quanto Totti o Gattuso. Qualcuno in cui i giovani possano identificarsi. L´ultimo, forse, è stato Karol Wojtyla. Non sembra aver lasciato eredi.
Peraltro, (Indagine Demos-Coop, maggio 2006) il 26% dei giovani (15-25 anni) fra le professioni di maggiore prestigio inserisce il calciatore. Il 12% la velina. Gli insegnanti? Il 9%. La metà rispetto alla popolazione nell´insieme (un dato comunque basso). Gli insegnanti. I giovani non ne hanno stima e neppure paura.
D´altronde, molto si è fatto per dequalificare la scuola (soprattutto pubblica). Spingendo gli insegnanti in giù, nella considerazione sociale. Hanno stipendi mediocri, un livello di prestigio limitato. I loro studenti, figli di professionisti, ma anche di artigiani o di lavoratori autonomi, hanno stili di vita più elevati. (D´altronde, oggi la cultura non garantisce riconoscimento sociale). Gli insegnanti. Si sono adattati a una carriera di routine, dove il merito conta poco. Come possono rappresentare un "modello" per i giovani? I ragazzi, peraltro, oggi sfuggono a ogni controllo degli adulti. Inutile vietare. Hanno due pollici così: diteggiano sul cellulare (ultimo modello, comprato dai genitori). Per tenersi in contatto. Sempre. Dovunque. Senza fare rumore. Nessuna suoneria. Solo la luce che si accende. Nessuna parola. Un fiume di sms, smile, mms. Non li puoi controllare. Hanno una superiorità tecnica nei nostri confronti, incommensurabile. Per cui sono sempre altrove, anche se li abbiamo davanti agli occhi. A casa, a scuola, in Chiesa (se ci vanno), al cinema, in autobus, per strada, in auto, durante le assemblee, di fronte alla tivù. Cellulare in mano. Impegnati in relazioni senza empatia. Per questo ci inquietano. E´ che non li conosciamo. Ci sfuggono. Anche se sono sempre con noi. Non comprendiamo i loro silenzi. Le loro trasgressioni. La loro indifferenza verso l´autorità, che noi stessi abbiamo contribuito a demistificare, a combattere. Noi: volevamo cambiare il mondo. E invece abbiamo cresciuto una generazione senza genitori, insegnanti e sacerdoti. Senza nome. Perché noi, adulti, rifiutiamo di crescere e di invecchiare. E ci crediamo per sempre giovani. Per definire i nostri figli: ci mancano le parole.
 

 

 

 


I motivi della fuga. Sono soprattutto tre le cause della fuga dalla scuola. Le continue voci sull'ennesima riforma del sistema pensionistico italiano, richiesta con forza anche dai partner europei, non contribuisce certamente a tranquillizzare chi potrebbe ancora trascorrere qualche anno dietro la cattedra. Quest'anno, tra le altre cose, secondo la riforma Maroni era l'ultimo in cui si poteva andare in pensione ancora all'età di 57 anni e 35 di servizio. Dal prossimo anno subentrerà l'ormai famoso, o famigerato, 'gradone': di colpo l'età minima per congedarsi dalle aule balzerà a 60 anni. E, nonostante la possibilità per chi ha già ha maturato il diritto (35 anni di insegnamento e 57 di età) di evitare anche per i prossimi anni lo scalone, in molti hanno dimostrato di non fidarsi.

La paura che qualche altra normativa possa cambiare le regole del gioco è elevata e chi può toglie il disturbo. La seconda motivazione è di tipo strutturale: l'età media dei docenti italiani è di 50 anni: una classe docente vecchia come non si registra in nessun paese europeo e, soprattutto, stanca. Ed sono proprio le crescenti difficoltà di gestione della classe che inducono sempre più maestre e professori a lasciare anzitempo la scuola.


I dati. Appena tre anni fa, nel 2004/2005, andarono in pensione 24.603 insegnanti, capi d'istituto e Ata. Dopo tre anni, il numero è letteralmente raddoppiato. Il grosso dei pensionamenti (circa 41 mila nominativi) - con Lombardia, Campania e Sicilia in testa - riguarda i docenti: l'anno scorso furono 29 mila. Secondo questi ultimi numeri in testa ci sarebbero le maestre della scuola materna ed elementare. Ma il dato più significativo è il consistente incremento (più 40 per cento circa) di coloro che vanno in pensione per dimissioni volontarie: coloro che sarebbero potuti rimanere ancora qualche anno ma hanno preferito lasciare. Così, in totale, hanno chiesto di lasciare la scuola 5 addetti su 100.


Il risvolto. Il dato sul numero dei pensionamenti sarà certamente accolto con grande gioia sia dai tecnici del ministero della Pubblica istruzione, che possono pianificare le prossime assunzioni senza troppe preoccupazioni, sia dai 237 mila supplenti iscritti nelle graduatorie provinciali permanenti dalle quali vengono individuati metà dei neoassunti: l'altra metà proviene dalle graduatorie dei concorsi a cattedre. L'esodo lascerà vacanti un grandissimo numero di posti che consentiranno quasi certamente al governo Prodi di azzerare il precariato e concretizzare le 150 mila assunzioni preventivate anche dal ministro dell'Economia, Tomaso Padoa Schioppa.