Pentimenti sull'integrazione scolastica dei disabili?

da TuttoscuolaNews N. 280, 19 febbraio 2007

 

Trent'anni fa il nostro Paese sanciva anche per la scuola, con la legge 517, la svolta culturale degli anni '70 che voleva i "diversi" inseriti a pieno titolo nella società. Già pochi anni prima, la legge 118/1971 sugli invalidi civili aveva infranto un tabù storico, disponendo che "L'istruzione dell'obbligo deve avvenire nelle classi normali della scuola pubblica".

Cominciò formalmente, dunque, nel 1977 quel complesso e difficile percorso di integrazione dei portatori di handicap nella scuola che ha portato oggi ad avere oltre 172 mila minori disabili (ne sono previsti 180 mila l'anno prossimo), inseriti insieme ai coetanei nella scuola pubblica.

Gli istituti speciali vennero chiusi e i diversamente abili diventarono compagni di banco dei ragazzi più fortunati.

Molti Paesi europei cercano di imitare il modello italiano. L'Onu due mesi fa ha sancito il diritto universale per l'integrazione scolastica.

E da noi? In Italia affiora ogni tanto la nostalgia del passato, soprattutto da parte di chi ha conosciuto negli istituti speciali quegli interventi specialistici che addestravano i ragazzi e che ora, nella scuola di tutti, qualche volta mancano o sono di bassa qualità.

Sull'argomento dell'integrazione scolastica la Federazione nazionali degli istituti per ciechi, d'intesa con l'Unione nazionale ciechi, ha tenuto la settimana scorsa un convegno a carattere internazionale che ha messo a confronto esperienze e scelte diverse.

Un dato incontrovertibile è uscito dal dibattito: l'integrazione scolastica dei disabili e' una scelta irrinunciabile di civiltà. Ma è anche un processo non interamente compiuto è chiede in Italia un sostegno di qualità degli interventi, oltre al grande sforzo quantitativo dello Stato (86 mila docenti di sostegno) e di altri soggetti istituzionali.