Desolate risposte a bulli e squilli.

Mario Pirani  la Repubblica, 26/2/2007

 

E' passata solo una settimana da quando, nell’ultima rubrica, parlavo dell’intreccio tra bullismo e uso perverso e invasivo dei cellulari nelle aule scolastiche, tornando a chiedere che se ne proibisca – per disposizione governativa o per legge – l’accesso nelle scuole. Ebbene, quasi ogni giorno, regolari come un bollettino meteo, le cronache hanno seguitato a riportare episodi del tipo: "Pestaggio e videochoc. In venti all’assalto di un tredicenne" (Repubblica, 21 us), mentre, desolato, il nostro Corrado Augias titola "Bullismo, povera scuola in cerca di eroi" l’ennesima lettera di denuncia (Repubblica, 23 us). Quanto a me ho seguitato a ricevere e-mail e messaggi.

Una amica, che insegna in un liceo scientifico di Roma con diecine d’anni di docenza, accorata sostiene: «I presidi non emetteranno mai una proibizione e se lo facessero troverebbero l’opposizione dei genitori e magari la sentenza di condanna di qualche magistrato, come è già avvenuto. Il consiglio di istituto potrebbe forse approvare un regolamento interno, tenendo conto, però, che in quella sede non solo vi è una rappresentanza degli studenti con diritto di voto ma la presidenza spetta sempre ad un genitore. E i genitori, al giorno d’oggi, sovente rifuggono dal contrastare i desideri dei figli. Non mancano inoltre insegnanti che in materia di telefonino in classe sono i primi a dare un cattivo esempio». Sembra concordare il prof. Armando Catalano, responsabile nazionale dei dirigenti scolastici Flc Cgil, che si rimette anche lui ad un ipotetico regolamento emesso dal consiglio di istituto, poiché «in quella sede genitori e studenti sono chiamati ad assumersi le loro responsabilità e possono venire allo scoperto i mammismi e i lassismi del mondo adulto nei confronti della nostra gioventù».

Bella soddisfazione, mi vien da concludere di fronte a una simile dichiarazione di resa, velata dalla sociologia. Ben comprensibile, del resto, dopo tante frustrazioni inferte agli insegnanti. Una ultima testimonianza – quasi un test di ordinaria disperazione – mi è offerta dalla professoressa Giovanna Giugni di Trento, giunta a chiedere provocatoriamente un risarcimento dei danni subiti: «In molte scuole, soprattutto istituti tecnici e professionale della nostra ricca Regione – afferma –gli insegnanti operano in condizioni di emergenza. Come definire altrimenti la paura che gli studenti estraggano taglierini e cacciaviti? O come valutare l’atteggiamento di ragazzi che rispondono all’appello voltando smaccatamente la schiena al docente, che lo apostrofano con epiteti quali "buffone" o "isterica" o "stressata, cambia lavoro"? Questi due ultimi esempi li traggo dalla mia personale esperienza, pluriventennale, di docente di diritto ed economia in vari istituti professionali del Trentino. Ed è stato proprio l’ennesimo, avvilente episodio di strafottente arroganza a spingermi a scrivere una lettera, pubblicata dalla stampa locale, con la quale chiedevo il risarcimento dei danni a carico degli assessorati all’istruzione o dei sovrintendenti scolastici. A loro, infatti, compete l’obbligo di assicurare condizioni di lavoro dignitose ed adeguate. Gli insegnanti, nell’immaginario collettivo, non dovrebbero avere una dignità professionale da difendere. Gli si chiede, peraltro, di sopportare il quotidiano impegno di un’educazione sempre più orfana di educatori, affidata spesso alla televisione più bieca da parte di famiglie stanche, impaurite dall’arroganza dei loro stessi figli, disgregate, imbelli. La società del permissivismo e del «vietato vietare» ha prodotto frutti malefici, che si ripercuotono (ed ancor più si ripercuoteranno) sul capo di giovani generazioni fragili, ignoranti, indifese ed incapaci di difendersi perché prive dell’abilità necessaria per decifrare un testo semplice, comprendere un comunicato, mostrare l’umiltà di apprendere e, persino, il decoro della persona. Tanti colleghi mi hanno appoggiata quando, dalle pagine dei quotidiani locali, ho chiesto di risarcire lo studio frustrato, la dignità calpestata, la mancanza di reali strumenti per allontanare dalla scuola chi ne turba l’andamento. Con i proventi si potrebbero aiutare i veramente capaci e meritevoli. Come vuole la Costituzione. Come vorrebbe il buonsenso dimenticato».

Molte anime belle troveranno disdicevole uno sfogo tanto amaro e debordante. Ma quali parole trovare per superare l’abisso tra questa realtà e le frasi immancabili nei programmi politici (da ultimo nei 12 punti di Prodi) che ribadiscono l’eterno «impegno forte per cultura, scuola, università»?