Bullismo e normatività.

di Michela Gallina, 8/2/2007.

 

L’episodio di bullismo avvenuto nella scuola di Torino, in cui quattro studenti hanno filmato e mandato su internet le scene di prevaricazione esercitate ai danni di un alunno disabile loro compagno, hanno giustamente scosso le coscienze civili e spinto a porre i riflettori su un problema di cui la nostra organizzazione si sta occupando con preoccupazione da tempo: il bullismo.

Sugli allievi coinvolti nel fatto è calato un provvedimento disciplinare di sospensione per un anno dalla scuola e di impiego in un’istituzione dalle finalità sociali. Non possiamo che guardare con una certa dose di sollievo a tale provvedimento, finalmente è stata adottata una linea “decisa” e ferma per tentare di arginare un fenomeno che sta assumendo proporzioni sempre più incontrollabili e non solo in Italia.

Si tratta però di un intervento che, anche se ha avuto il merito di suscitare l’attenzione mediatica evidenziando tutta l’urgenza legata alla soluzione del problema, agisce solo sul sintomo; le cause del fenomeno in questione sono ben più complesse e difficili da estirpare.

Certo la scuola da sola può far poco se non vi è una presa in carico del problema da parte di tutte le istituzioni educative che in un modo o nell’altro hanno a che fare con i minori, in primis la famiglia la quale, in molti casi è complice nel proteggere i figli anche rispetto alle condotte devianti e tende a scaricare la responsabilità all’esterno.

Talvolta la famiglia dimentica di essere il nucleo primario dell’educazione attraverso quella che i testi normativi definiscono come “potestà genitoriale”, la scuola riceve solo la delega per l’istruzione e l’educazione, ma è una delle tante agenzie formative concorrenti.

La tendenza degli ultimi anni, da parte dei genitori sia pur in buona fede, è stata quella di essere sempre più “accudenti”, protettivi e sempre meno “normativi”, la scuola ha sposato anch’essa questa tendenza per evitare di porsi in contrapposizione con l’utenza, ma è arrivato il momento di invertire la rotta, meglio se come scelta condivisa scuola-famiglia, di recuperare il significato e l’importanza delle regole e dei limiti, di riportare le giovani generazioni in contatto con il principio di realtà per ostacolare il dilagare del delirio di onnipotenza e di impunità.

Da molto tempo richiamiamo la coscienza civile alla necessità del rispetto delle regole, delle istituzioni e soprattutto della persona, ma questo non può avvenire d’incanto senza che non vi sia una sinergica presa di posizione da parte della collettività.

Ormai si può dire, con buona pace delle coscienze, che le linee permissiva e “perdonista”, quella della comprensione e della giustificazione ad oltranza abbiano fatto il loro tempo e dimostrato tutta la loro inadeguatezza. L’aggressività è una caratteristica insita nelle persone bambini o adulti che siano, maschi o femmine e, se bene incanalata, può avere delle valenze positive quali: autodeterminazione, autodifesa, competizione. Il senso dell’educazione è proprio quello di canalizzare costruttivamente quell’energia che altrimenti diventerebbe distruttiva sotto forma di violenza. Non è dunque pensabile tentare di risolvere il problema banalizzandolo attraverso la demonizzazione dell’aggressività e l’esaltazione della bontà o “buonismo”, del resto si sa che la trasgressione ha un suo innegabile fascino, né tanto meno demonizzando e proibendo l’uso dei telefonini a scuola. Qualsiasi strumento è in sé neutro, può diventare pericoloso se ne viene fatto un uso improprio ed è esattamente sull’ “uso” degli strumenti che bisogna puntare, non sugli oggetti in sé, altrimenti, per lo stesso motivo, dovremmo togliere i coltelli dal corredo di posate delle mense.

Anche ma non solo la scuola è chiamata a rispondere a questa sfida ed emergenza sociale; esiste uno strumento metodologico importante che sicuramente non consente di accelerare i tempi del lavoro in classe, ma a fronte di un rallentamento migliora significativamente la qualità delle relazioni personali. Si tratta dell’utilizzo dei gruppi di “cooperative learning” e quindi della collaborazione interdipendente al posto dell’apprendimento individualistico, che può consentire al gruppo di essere un elemento di contenimento, sostegno ed orientamento sia affettivo-emotivo, sia competente, un modello da contrapporre a quello del gruppo deviante e prevaricante. Un modello dove il successo si persegue attraverso la collaborazione e l’apporto di tutti i membri del gruppo e non attraverso la sopraffazione, emearginazione o umiliazione del singolo. Rimane da chiedersi se il piccolo spaccato di società che viene a crearsi all’interno di una classe trovi poi un riscontro all’esterno, nel contesto più ampio dove invece la competizione, la sopraffazione, il successo individuale ad ogni costo sembrano essere i valori o, quanto meno, le direttive dominanti.

Michela Gallina

8 febbraio 2007