Bulli e squilli, non occorre una legge.

Mario Pirani, la Repubblica, 19/2/2007

 

All'inizio del 2005 - sembra già trascorsa un'epoca tecnologica - dedicai un paio di pezzi di questa rubrica all'assurdità di consentire l'uso dei telefonini a scuola per il disturbo che arrecavano alle lezioni. Mi aveva spinto a scriverne lo stupore per una sentenza della Cassazione che confermava la condanna per violenza privata di un professore di Lecco che aveva strappato di mano il telefonino a una studentessa, la quale, incurante di ogni invito, continuava imperterrita ad usarlo durante la lezione.

Pochi giorni dopo in un convegno cui partecipava il presidente di tutti i presidi italiani, questi mi spiegò l'inopportunità, a suo avviso, di un divieto mentre gli appariva consigliabile dissuadere i ragazzi, usando parole di convincimento, "altrimenti la scuola diventa coercizione". I metodi di persuasione non debbono, però, aver sortito effetti se, due anni dopo, col salto tecnologico che ha trasformato i cellulari in telecamere, collegabili in rete per la diffusione via Internet, non abbiamo che l'imbarazzo della scelta tra riprese in diretta di scene di violenza di gruppo, di sessualità adolescenziale esibita, di voluto ludibrio dell'istituzione scolastica. L'uso illimitato del telefonino si è così incrociato col bullismo in crescita esponenziale. I dibattiti in tv sul tema non ci sono risparmiati. Vi compaiono ministri compunti e ministre con aria sollecita, i quali ci informano che stanno studiando una legge che vieti l'introduzione nelle aule del malefico strumento.

Mi sembra davvero assurdo che occorra addirittura una legge, quando sono convinto che basterebbe una circolare del ministro ai presidi che li obblighi ad emettere e far applicare il divieto di entrare a scuola col cellulare. Si leggono, talora, articoli intelligenti e accorati, come quello di Ilvo Diamanti (Repubblica dell'11 febbraio) che confessa: "I giovani, i più giovani. all'improvviso sembrano diventati estranei. Non comprendiamo la loro indifferenza verso l'autorità, che noi stessi abbiamo contribuito a demistificare e combattere". Mi sembra abbia colto nel segno e, anche se non è certo questo lo spazio per approfondire, vorrei con semplificante schematicità, elencare i momenti che hanno portato all'attuale distacco generazionale. Premetto che rifiuto di considerarlo un dato misterioso, quasi si trattasse di un fenomeno della natura, un effetto serra sociologico. Per contro mi appare come il frutto perverso di una fase storica - politica e culturale - che ha oltrepassato le premesse positive per dissolversi in un indistinto nichilismo, in uno scarico di responsabilità, in una perdita di ruolo che ha corroso il pensiero e le strutture (famiglia, Stato, partiti, scuola) su cui la società aveva organizzato il suo progredire.

Il potenziale liberatorio e progressista dei movimenti che avevano animato l'arco temporale dal '68 al '77 andò ben oltre la conquista di una nuova condizione femminile, di un più aperto e generale diritto allo studio, di nuovi rapporti e diritti familiari. Se ne sono invece tratte conclusioni aberranti, soprattutto sul piano della cultura diffusa e delle sue applicazioni (dalle riforme pedagogiche alla giurisdizione). Quanti genitori, insegnanti, giudici, formatisi nell'arco di quella prolungata stagione, si sono prestati ad essere i portatori attivi di un virus nichilista che ha proliferato e invaso il corpo sociale? Si è avvalorata in una serie di discorsi, di misure pratiche, di comportamenti nella famiglia e nelle scuola, la confusione tra affermazione della libertà democratica e scardinamento del principio di autorità, tra ampliamento dei diritti e la cancellazione del concetto di "limite", in un'orgia di esaltazione del diritto individuale ad ogni scelta, anche quando offende e danneggia il diritto di tutti e, comunque, quello altrui.

Nella scuola la devastazione, di cui molte riforme sono state il tramite, non ha incontrato dighe, anche se non dovunque è così e laddove l'insegnante sa essere autorevole il rapporto con gli studenti resta vivo e proficuo. Non si può, però, chiedere a un corpo docente umiliato, misconosciuto e malpagato di adeguarsi all'esempio di pochi. Solo se la cultura democratica, in primo luogo nella famiglia e nella scuola, ritornerà a comprendere che il principio di autorità e il concetto di limite non sono attributi della destra ma garanzie di ogni società libera, quel rapporto educativo, che è sempre esistito tra le generazioni dei padri e delle madri e quelle dei figli, potrà tornare a quella proficua dialettica che rende il naturale conflitto un elemento di crescita e non di devastazione alienante.