Mission impossible.
Gianfranco Giovannone da
DocentINclasse, 16/12/2007
Tenendo fede all’impegno preso con i lettori
sulla mia mission impossible all’interno del Partito Democratico,
pubblico la relazione che leggerò durante il primo convegno nazionale
sulla scuola del PD, che avrà luogo a Pisa il 25 gennaio prossimo e al
quale ho preteso che fosse invitata anche una rappresentanza della
Gilda, una piccola vittoria di cui sono personalmente molto fiero.
Tutti sono pronti a riconoscere il ruolo fondamentale della scuola e
degli insegnanti per la crescita culturale ma anche economica del
nostro paese. Lo ha fatto il presidente della Camera al momento del
suo insediamento, lo fa spesso il presidente della Repubblica, lo fa
un giorno sì e uno no il ministro della pubblica istruzione. E tutti
riconoscono, al tempo stesso, che gli insegnanti italiani sono
sottopagati, il fanalino di coda dei paesi OCSE. Il programma
dell’Unione sembrava aver colto questa drammatica contraddizione:
“Lo stato di forte disagio in cui versa il mondo della Scuola deriva
anche dal disconoscimento e dalla sottovalutazione della funzione e
dell’autorevolezza sociale degli insegnanti …Bisogna riconquistare la
fiducia degli insegnanti , riconsegnare loro le risorse e un ruolo
centrale per la realizzazione dell’innovazione. Occorre attivare
politiche per valorizzare il loro lavoro, il loro ruolo, la loro
formazione scientifica nelle loro diverse declinazioni disciplinari,
la loro funzione di intellettuali e di protagonisti di scelte chiave
per la qualità del futuro del Paese”
E ancora:
“Un ruolo centrale lo avranno gli insegnanti, la cui professione
riveste un ruolo strategico per il Paese. Vogliamo rendere
l’insegnamento una scelta appetibile per i migliori talenti, uomini e
donne,così che la qualità della scuola possa beneficiare della loro
formazione e qualificazione”
Mentre esprimiamo un apprezzamento complessivo per il lavoro svolto da
Giuseppe Fioroni e Mariangela Bastico al MPI per ridare serietà e
autorevolezza alla scuola italiana, non possiamo non rilevare come la
surreale e anche un po’ umiliante vicenda del rinnovo contrattuale
abbia purtroppo provveduto a smentire bruscamente queste parole. Per
concederci i soliti cento euro lordi di aumento – che il governo di
centrodestra ci riconobbe senza particolari drammatizzazioni – il
governo ha ingaggiato con i sindacati di categoria un estenuante e
apparentemente incomprensibile braccio di ferro. Apparentemente,
perché la disputa attorno ai sei euro lordi – tanta era la differenza
tra le richieste sindacali e le disponibilità del governo – in realtà
è stata caricata esplicitamente, ad esempio sulla stampa, ma non solo,
di significati simbolici un po’ preoccupanti che hanno mostrato i
limiti ideologici di certo riformismo, limiti che rischiano di
ipotecare anche la fisionomia del futuro Partito Democratico A
spalleggiare il rigorismo del ministro dell’economia infatti, sono
intervenuti non pochi rappresentati di quel riformismo di sinistra
ansioso di ricevere il plauso di opinionisti come Pietro Ichino o
Angelo Panebianco, una sorta di riformismo ideologico e talvolta un
po’ sloganistico, molto diverso dal riformismo “tranquillo” ed
efficace di un personaggio come Pierluigi Bersani.
Nessuno nega che dal pubblico impiego, e in parte anche dal mondo
della scuola vadano eliminate quelle sacche di inefficienza,
assenteismo e servizi spesso scadenti che francamente non sono più
tollerabili, e che costituiscono un primato tutto italiano. Del resto,
tra governo e sindacati era stato firmato un memorandum d’intesa,
ispirato in parte da Pietro Ichino, che andava proprio in quel senso.
Ma aver trasformato una normale tornata contrattuale in uno scontro
tra sindacati corporativi che difendevano i “fannulloni” e
“riformisti” paladini dell’efficienza e della meritocrazia è stato un
errore che sicuramente ha fatto perdere ulteriori consensi al governo
di centro-sinistra, ma che soprattutto richiederebbe una riflessione
sulla natura spesso astratta e ideologica di certo “riformismo” un po’
provinciale , spesso apertamente ispirato al liberismo e alle
politiche antisociali e antisindacali della signora Thatcher. Per fare
un esempio, un “riformista” come Nicola Rossi, parlando del modesto
contratto ancora in via di rinnovamento ha scritto (Corriere della
Sera del 3 settembre):
“Padoa Schioppa spiega che per riqualificare la spesa pubblica si deve
intervenire sulle retribuzioni, visto che nel settore dei beni e
servizi e degli investimenti si è ormai raschiato il fondo del barile.
Sbaglio o ha appena firmato un contratto da Babbo Natale con i
dipendenti pubblici”. Ci sembra un esempio di riformismo “estremista”
preoccupante sul quale occorrerà necessariamente discutere all’interno
del PD, perché richiama, ad esempio, l’insofferenza nei confronti dei
sindacati e dello stesso lavoro dipendente – pubblico e privato – da
parte di intellettuali come Michele Salvati che hanno dato un notevole
contributo nel redigere il Manifesto del Partito Democratico.
Ma per quanto riguarda la scuola il problema è più antico e
drammatico, va ben al di là della pur deludente gestione dell’ultima
tornata contrattuale. Se le frasi altisonanti contenute nel programma
dell’Unione avevano un senso politico e non solo retorico, allora è
legittimo interpretarle come l’impegno da parte del governo di
centro-sinistra a compiere uno sforzo finanziario straordinario per
cominciare ad avvicinare gli stipendi dei docenti italiani alle medie
europee. E per fare questo occorre una decisione politica, perché è un
problema che può essere avviato a soluzione attraverso due o forse tre
leggi finanziarie, perché se si arriva a ridosso della scadenza
contrattuale senza aver deciso prima che occorre uno sforzo
finanziario straordinario per la scuola, il risultato saranno comunque
i soliti cento euro lordi. Su questo gli insegnanti, e in particolar
modo gli insegnanti dei DS hanno diritto ad una risposta finalmente
chiara e senza ipocrisie. Tutto il resto, compresi i rituali
riconoscimenti del nostro ruolo fondamentale o strategico per lo
sviluppo e la modernizzazione del nostro Paese, sono soltanto
chiacchiere, vuote e ormai anche un po’ beffarde.
Una risposta chiara e senza ipocrisie dovrebbe riguardare
esclusivamente la questione delle compatibilità finanziarie, vorremmo
che ci venisse risparmiata la penosa e disinformata paccottiglia con
cui si è respinta fino ad ora la richiesta di valorizzazione
professionale da parte degli insegnanti. Ad esempio: non si possono
aumentare significativamente gli stipendi dei docenti italiani perché
il loro numero è eccessivo rispetto agli altri paesi europei. Il
ministro Fioroni ha confutato efficacemente questo argomento
ricordando la particolare struttura del territorio italiano, e
soprattutto gli 80.000 insegnanti di sostegno, a testimonianza del
fatto che il nostro Paese è all’avanguardia nell’integrazione degli
alunni diversamente abili, inseriti in classi comuni e non speciali,
come avviene nel resto d’Europa. Comunque,se esistono sprechi ed
inefficienze è compito del governo porvi rimedio, senza assumerli
surrettiziamente come argomenti per negare la piena valorizzazione
della professionalità docente. Né, vogliamo sperare, si vorrà chiedere
agli insegnanti di dimostrare di essere lavoratori a tempo pieno, con
piena dignità professionale. A differenza di quanto ci è stato
raccontato per anni, ora che i dati internazionali sono ampiamente
disponibili, sappiamo che l’orario di cattedra dei professori è
attorno alle diciotto ore in tutti i paesi OCSE.
Lo stesso Quaderno bianco, firmato congiuntamente dai ministri Padoa
Schioppa e Fioroni, mostra esplicitamente che la differenza delle ore
di insegnamento tra l’Italia e la media OCSE – differenza definita
“leggera” dal rapporto OECD, “Education at a glance” – non è tale da
giustificare il fatto che gli insegnanti italiani guadagnino 8-9000
euro meno della media europea. Tra l’altro,se si escludessero dalla
comparazione gli Stati Uniti, che hanno un monte ore eccezionalmente
alto, la differenza tra l’Italia e la media OCSE sarebbe decisamente
trascurabile, mentre la Finlandia, che si piazza invariabilmente al
primo posto nelle comparazioni internazionali relative al profitto
degli studenti, ha un monte ore inferiore a quello italiano, a
dimostrazione che non vi è correlazione automatica tra orario di
cattedra degli insegnanti e successo scolastico.
La necessità di valutare l’efficacia del lavoro degli insegnanti,
avanzata con forza nel Quaderno bianco non può però essere elusa,
anche se gli stessi studiosi che vi hanno contribuito non ne
nascondono la complessità, soprattutto quando si tratta di legarla
all’incentivazione dei docenti. Ogni anno il rapporto OCSE-PISA – ma
non solo - riporta dati sconfortanti in proposito, evidenziando una
drammatica disparità tra il Nord e il Meridione del nostro Paese – ma
al Centro i risultati sembrano largamente insoddisfacenti - , una
situazione preoccupante per quanto riguarda le competenze raggiunte
dagli studenti del settore tecnico-professionale e la cronica
incapacità del sistema a colmare lo svantaggio sociale e culturale di
base degli studenti, perpetuando invece di attenuare questo
svantaggio. La questione può essere così sintetizzata:
1. A partire dagli anni ottanta, la maggior parte dei paesi
economicamente avanzati – ma non l’Italia - si è dotata di un sistema
nazionale di valutazione basato sulla misurazione degli esiti della
scuola, ad esempio in termini di competenze degli studenti e dei
molteplici fattori che concorrono a tali risultati. Un sistema
nazionale di valutazione permette di monitorare l’efficacia dei
sistemi educativi meglio di quanto non avvenga con i benchmark desunti
dai confronti internazionali come l’OCSE-PISA perché la definizione
degli standard di apprendimento rispetta le peculiarità, l’eredità
culturale e l’identità propria di ciascun paese. Condividiamo
pienamente l’istanza, posta con forza dal Quaderno bianco, di colmare
l’evidente e grave ritardo italiano, per dotare il nostro paese di uno
strumento indispensabile per elaborare e assumere indirizzi di
politica scolastica e per migliorare la qualità complessiva del nostro
sistema educativo. Nel quaderno si dice che “la maggioranza degli
insegnanti avverte chiaramente la necessità della valutazione”, ma la
percentuale di tale maggioranza in realtà supera di poco il 50%, a
dimostrazione del ritardo culturale di una parte consistente del corpo
insegnante.
2. Come lo stesso Quaderno bianco suggerisce, la correlazione tra
valutazione dell’azione educativa e l’incentivazione dei docenti non
può essere automatica – non lo è in Francia o in Germania, ad esempio,
dove l’esistenza di sistemi di valutazione nazionali non si riflette
sui criteri di determinazione della carriera dei docenti. In realtà
l’unica esperienza in cui si sta tentando di implementare questa
correlazione è il Regno Unito e, in parte, negli Stati Uniti.. Nel
Quaderno bianco si affronta il problema di questa correlazione con
molta cautela e avendo ben presenti i complessi problemi che tale
correlazione implica: “ Appaiono innanzitutto evidenti le difficoltà e
i rischi connessi a un utilizzo automatico dei risultati della sola
misurazione delle conoscenze e competenze per indurre miglioramenti
dell’azione educativa. Sia nell’esperienza delle graduatorie di scuole
della Gran Bretagna, sia nell’esperienza degli Stati Uniti, si è
tentato di indurre in modo automatico, in un caso l’abbandono da parte
delle famiglie e studenti delle scuole “peggiori”, nell’altro un
impegno maggiore degli insegnanti legando le loro retribuzioni ai
risultati misurati. In entrambi i casi, si è aperto un confronto sui
possibili effetti perversi di tali meccanismi” L’insieme di queste e
altre considerazioni “ non preclude alcun utilizzo della valutazione,
ma suggerisce cautela nel suo insieme”. E ancora: “Mentre è evidente
che l’obiettivo ultimo è quello di assicurare dati livelli essenziali
di conoscenza e competenza, si è visto che tentare di conseguire
questo obiettivo attraverso la fissazione di meccanismi automatici
premio/sanzione può introdurre effetti perversi. … La strada
appropriata è dunque da un lato quella della misurazione dei
progressi, dall’altro, quella di meccanismi flessibili e modificabili
per la valutazione del contributo della scuola a quei progressi, che
eviti rigidi meccanismi pianificatori. E’ agli esiti di questa
valutazione che appare possibile e ragionevole legare la retribuzione
accessoria”. Tre sono le soluzioni – non alternative ma complementari
– che si ipotizzano:
• Un impegno didattico aggiuntivo da parte degli insegnanti più adatti
in relazione alle necessità accertate. La riduzione dei vincoli che
limitano oggi il numero massimo di ore che un singolo insegnante può
esercitare potrebbe consentire maggiore flessibilità nell’impegnare,
di volta in volta, gli insegnanti che appaiono adatti alle necessità
emerse dalla diagnosi.
• Il secondo fattore – un impegno più motivato e focalizzato di tutti
gli insegnanti di una data scuola – riguarda essenzialmente le scuole
che si trovino in una “situazione di criticità” che richiedano la
missione del “team di supporto” . Il team di supporto aiuterebbe la
scuola a fissare gli obiettivi di progresso e l’incentivazione sarebbe
legata, appunto, ai progressi compiuti dalla scuola nel suo complesso
rispetto alla situazione iniziale. “A tali obiettivi può essere legata
la previsione di risorse aggiuntive premiali, per l’intero corpo
insegnante e per il personale in genere della scuola. Particolarmente
efficace può essere l’incentivazione per i dirigenti scolastici”
• Il terzo fattore riguarda l’incentivazione dei singoli insegnanti. “
Per i singoli insegnanti non si tratta di vedere una parte della
retribuzione legata ai risultati ottenuti l’anno precedente, quanto di
individuare il modo in cui i risultati stratificati nel tempo possano
consentire un “salto” di carriera. Non si tratta di una strada
semplice, ma su di essa si potrebbe lavorare, legandone l’attuazione
ai progressi del sistema nazionale di valutazione”. Inoltre, si
potrebbero prendere in considerazione i successi ottenuti nelle scuole
in cui si è operato per raggiungere gli obiettivi stabiliti nelle
diagnosi valutative; i crediti formativi derivanti sia da iniziative
pianificate sia da iniziative degli insegnanti; i risultati
professionali ottenuti dagli insegnanti in aree diverse
dall’insegnamento.
Dire che “non si tratta di una strada semplice” sembra davvero un
eufemismo, perché il tentativo di legare l’incentivazione alla
valutazione dell’efficacia educativa così come enunciata nel Quaderno
bianco appare non solo estremamente complessa, ma alcune proposte
appaiono difficilmente comprensibili.. Intanto, sembrerebbe di capire,
la maggior parte degli insegnanti coinvolti dovrebbero essere,
prevalentemente, quelli che lavorano in scuole in situazione di
criticità: Non a caso si fa spesso riferimento al Mezzogiorno, l’area
che in tutti gli attuali confronti internazionali viene individuata
quella a maggior sofferenza per quanto riguarda la matematica, le
scienze e la capacità di lettura. Proprio questa criticità iniziale
consentirebbe di rilevare i progressi degli studenti che
permetterebbero di premiare le scuole “virtuose”. E gli altri?Quelli
che lavorano in un liceo di Bolzano, di Bologna o di Firenze, che si
piazzano già ora ai primi posti dei confronti internazionali e magari
superano la mitica Finlandia?. Per quanto riguarda poi
l’incentivazione dei singoli insegnanti, riesce difficile comprendere
come si facciano a cogliere “ i risultati stratificati nel tempo”.
Resta il fatto però che l’ipotesi di collegare il risultato
dell’azione educativa allo sviluppo di carriera dei docenti appare non
solo condivisibile, ma fa apparire sbrigativi e dilettanteschi sia i
tentativi passati di instaurare forme di meritocrazia nelle scuole,
sia gli appelli accorati alla premiazione dei migliori che appaiono
periodicamente sulla stampa. A noi sembra un’ipotesi di difficilissima
realizzazione, ma crediamo che vada sostenuta la volontà di realizzare
un efficace e condiviso sistema di valutazione dell’efficacia
dell’azione educativa, mentre l’ipotesi di collegare tale valutazione
all’incentivazione dei docenti dev’essere discussa e approfondita
molto seriamente. E vogliamo sperare, infine, che nell’attesa che si
realizzi nel nostro paese un serio sistema di valutazione scolastica,
gli stipendi dei docenti vengano intanto portati ad una soglia
dignitosa, poi si studierà come premiare le eccellenze. Come afferma
lo stesso Quaderno bianco, se la maggioranza – esigua – degli
insegnanti è favorevole a forme di incentivazione legate ai risultati
conseguiti, questa maggioranza afferma perentoriamente che ciò sarà
possibile solo quando tutti gli insegnanti godranno di stipendi
“europei”.
Ora che i dati diffusi dal Quaderno bianco hanno reso pubblico quello
che in realtà era abbastanza noto per chi avesse avuto la pazienza di
procurarsi i dati sull’orario di lavoro e sulle retribuzioni dell’area
OCSE, ci auguriamo non ci sia più nessuno, soprattutto tra gli stessi
insegnanti, che se ne esca con la proposta di preparare le lezioni e
correggere i compiti a scuola, per dimostrare all’opinione pubblica
che lavoriamo davvero. Spiace anzi dover scendere a questi livelli, ma
siamo consapevoli di quanto forti siano stati, in parte anche a
sinistra, i pregiudizi nei confronti degli insegnanti, e di quanto i
pregiudizi e i luoghi comuni siano vischiosi e duri a morire. Ma dev’essere
la politica, non gli insegnanti, che nella stragrande maggioranza dei
casi svolgono seriamente il loro lavoro, a dimostrare all’opinione
pubblica l’importanza della loro funzione sociale, innanzitutto con un
dignitoso riconoscimento economico.
Nell’ambito della valorizzazione della professionalità docente la
questione dei benefits degli insegnanti, affrontato da tempo nella
maggior parte dei paesi europei ma non in Italia, riveste un ruolo non
secondario. Nella “Intesa sulla Conoscenza”, firmata da tutti i
sindacati, dai ministri Fioroni, Nicolais e Padoa Schioppa si legge
“occorre studiare forme di esenzione e di agevolazione che consentano
ai docenti di usufruire di modalità non formalizzate di formazione,
connesse a spese per servizi culturali onerosi (musei, mostre, libri
etc)”. In una serie di colloqui avuti con Mariangela Bastico mi è
sembrato che il vice-ministro fosse molto sensibile alla questione,
anche se poi, nel tormentatissimo iter dell’ultima legge di bilancio è
riuscita ad inserire solo una norma per la deducibilità delle spese
relative all’acquisto del PC. Il problema è urgente perché, appunto,
qualsiasi iniziativa relativa all’estensione dei benefits deve
necessariamente passare dalla legge finanziaria, e mi sembra legittimo
chiedere se al Ministero della Pubblica Istruzione abbiano allo studio
progetti da sottoporre al vaglio del Ministero del Tesoro, che
ovviamente ha un ruolo decisivo in merito a stanziamenti ad hoc per i
benefits agli insegnanti. Credo che un azione decisa sulla questione
dei benefits, soprattutto se comunicata con chiarezza, semplicità ed
efficacia , avrebbe un enorme significato simbolico per tutta la
categoria, a fronte di un impegno finanziario non proibitivo
Naturalmente non c’è solo la questione economica ad ostacolare il
pieno riconoscimento della professionalità degli insegnanti, e,
ripetiamo, riconosciamo che questo governo ha compiuto passi
importanti, sia nel cancellare gli aspetti più odiosi e insostenibili
delle riforme della Moratti, sia nel tentare di ripristinare
l’autorevolezza della scuola e degli insegnanti. Ma di fronte al fatto
che, come ha recentemente riconosciuto il ministro della funzione
pubblica, un insegnante all’apice della carriera,e quindi alle soglie
dei sessant’anni, non arrivi a guadagnare mille e ottocento euro al
mese, non si può non riconoscere che quello dello status sociale ed
economico dei docenti costituisca di gran lunga il problema
principale.