A settembre?
A settembre.
Gianfranco Giovannone, da
DocentINclasse, 24/4/2007
Alessandro Salerno, nel suo bell’articolo
sull’abolizione degli esami di settembre,cita una conversazione tra
l’allora ministro della Pubblica Istruzione Francesco D’Onofrio e un
preside “progressista”, una conversazione che definire illuminante è
quasi un eufemismo. Le parole del ministro trasudano una demagogia
così greve che non avrebbe bisogno di commenti : finalmente i docenti
la smetteranno di guadagnare milioni in nero con le ripetizioni,
finalmente la smetteranno di rovinare le vacanze delle famiglie
italiane. Una campagna demagogica che, forse qualcuno lo ricorderà,
assunse anche livelli di spettacolarizzazione grottesca: i
telegiornali dell’epoca mostrarono per settimane le alfette della
guardia di finanza che sgommavano alla caccia dei pericolosi docenti
evasori, sapientemente esposti alla gogna nazionale. Ma ancora più
illuminanti, in quella conversazione, sono le parole del preside
progressista: Alessandro le ha ricostruite a memoria, e si potrebbe
pensare a un eccesso parodistico, ma purtroppo il delirio
panpedagogista che ha accompagnato il decennio riformista
monopolizzato da Berlinguer e dalla Moratti ci dice che non è così,
siamo stati abituati a vaneggiamenti ancora più insensati, e forse la
nostra colpa come docenti è di averli presi troppo sul serio in questi
anni, di aver provato a confutarli con argomenti razionali,
ragionevoli, invece di denunciarli per quello che erano, miserevole e
talvolta pericolosa aria fritta.
Perché furono aboliti gli esami di riparazione? Probabilmente perché
il bisogno di facile popolarità di D’Onofrio e del governo di
centrodestra si saldò con il tema della lotta alla selezione
scolastica caro alla sinistra. Si disse che si trattava di un’anomalia
tutta italiana, ma si dimenticava che anche la qualità della nostra
scuola, ormai da tempo diventata di massa, era anomala, di gran lunga
migliore cioè della media europea. E forse il punto sta proprio qui.
Una volta, più o meno in quegli anni, un professore universitario,
membro influente di varie commissioni ministeriali, mi disse che noi
insegnanti dovevamo metterci in testa che la scuola italiana era
troppo inutilmente difficile, e che quello che allora si faceva in
quarta e quinta liceo in futuro sarebbe stato studiato all’università.
Ed è più o meno quello che è successo, quello che sta succedendo,
anche se le facoltà di pedagogia ce la mettono tutta per fornire
motivazioni nobili e sofisticate a quello che è sostanzialmente un
processo di dequalificazione del nostro sistema educativo. Ed è
fuorviante ritenere, come spesso si fa a sinistra, che dietro tutto
questo ci sia un disegno teso a favorire la scuola privata. A livello
di scuola superore privato significa esclusivamente diplomifici a
scopo di lucro, ai limiti, e spesso oltre i limiti della legalità e
della decenza, e questo lo sanno tutti, e nessuno, a parte qualche
mascalzone, pensa seriamente di favorire la scuola privata. Ma certo,
se non un disegno, sicuramente c’è stata in questi anni una tendenza
evidente a rendere più facile la scuola italiana, con il risultato,
altrettanto evidente, di sottrarre progressivamente valore al titolo
di studio.
C’era effettivamente un problema da risolvere, ed era il notevole
differenziale tra il numero dei diplomati della nostra scuola e quello
degli altri paesi europei, un differenziale che non è ancora stato
colmato se sull’ultimo numero di Tuttoscuola Luigi Berlinguer lamenta
il fatto che mentre in Europa si diploma il cento per cento dei
diciottenni, nel nostro paese, nonostante i progressi degli ultimi
anni, siamo ancora al 75 %. Resta da vedere se la strada per colmare
questo divario fosse l’abbassamento progressivo della qualità
dell’istruzione e la svalorizzazione del titolo di studio, al punto
che molte università già non tengono in alcun conto il risultato
conseguito dagli studenti all’esame di stato. Di questo avremmo dovuto
parlare in questi anni, non delle insensate riforme messe in piedi da
Berlinguer e dalla Moratti per passare alla storia e che come il muro
di Berlino sono crollate senza lasciare alcun rimpianto, neppure tra i
loro supporters.
Ma la peggiore riforma, quella semplice semplice del ministro
D’Onofrio, invece è rimasta, e dal momento che il fallimento del
sistema dei debiti è sotto gli occhi di tutti, accade che ci si possa
diplomare senza aver mai aperto in cinque anni il libro di inglese, di
greco o di economia aziendale. Come afferma Eros Barone in Ripensare
la Forma Scuola , l’unica riforma seria che andava esplorata e che
invece non è stata mai nemmeno enunciata è quella dei contenuti, delle
discipline, dei programmi. Perché forse è vero che, ad esempio per
quanto riguarda l’istruzione tecnica e professionale (frequentata, è
bene ricordarlo, dal 70 % dei nostri studenti), occorrerebbe un
ripensamento serio del monte ore, del numero di discipline e anche del
peso proporzionale delle discipline, e occorrerebbe anche una
rivisitazione dei contenuti e delle metodologie di alcune discipline.
Si pensi solo ai programmi di lingua straniera: per gli studenti degli
istituti tecnici e professionali l’insegnamento linguistico si riduce,
incredibilmente, ad una pazzesca memorizzazione di termini tecnici,
per cui usciranno dalla scuola senza alcuna competenza comunicativa in
lingua straniera, e dopo qualche settimana si saranno ovviamente
dimenticati di come si dice bullone o otturazione in inglese. E cosi
via.
Ma nel frattempo, in attesa che il ministro Fioroni metta al lavoro
una commissione che si occupi finalmente dei veri problemi della
scuola secondaria, riteniamo sia venuto il momento di porre rimedio
alla irresponsabile riforma D’Onofrio e che si studino seriamente le
modalità per ripristinare l’esame di riparazione. Fino a qualche
settimana fa mi sembrava un’utopia, e, per quanto sollecitato da più
parti, indugiavo nell’aprire una raccolta di firme in questo senso. Ma
ho sentito recentemente Emanuele Barbieri, ex-segretario nazionale
della CGIL-Scuola, e attualmente funzionario del Ministero della
Pubblica Istruzione accennarvi esplicitamente in un pubblico
dibattito, segno che forse i tempi sono maturi per mettere la
questione all’ordine del giorno.