Matematica senza supplenti.

Marco Lodoli, la Repubblica, 24/4/2007

 

Addio supplente, presenza breve, attore quasi senza parte nel formidabile teatro della scuola. A quanto pare, soprattutto nelle materie scientifiche, le graduatorie si stanno svuotando e si prevede che presto mancheranno quei ricambi di un giorno o di un mese, quegli insegnanti giovani, entusiasti e inesperti che da un momento all'altro, senza alcun preavviso, venivano spediti in prima linea.

Fino a pochi anni fa c'erano insegnanti senza cattedra e quasi senza speranza che la mattina all'alba col treno scendevano a Roma dalla provincia e si mettevano ad aspettare nel bar della stazione una telefonata provvidenziale, una convocazione improvvisa. Così si tenevano pronti, fremevano nell'attesa spesso vana. A volte però la telefonata arrivava, un preside diceva di precipitarsi in una certa scuola, garantiva venti giorni di supplenza, forse un mese, e cominciava l'avventura. Gli alunni aspettavano il supplì - questo di solito era il nomignolo affibbiato, niente di incoraggiante - per sbranarselo in quattro e quattr'otto, per lapidarlo con freccette e palline di carta. Eppure lui cercava di dare il meglio di sé, percepiva l'occasione di stare davanti a una lavagna come una fortuna, come una prova decisiva, da non mancare. Si presentava con gentilezza, e subito cercava di capire a che punto del programma la classe fosse arrivata, provava a imparare in fretta i nomi e i cognomi dei ragazzi, e già dal secondo giorno iniziava a fare lezione, a dispiegare tutto il sapere faticosamente accumulato in anni di studio.

Nessuno mai lo stava ad ascoltare. Gli rubavano le chiavi di casa, gli nascondevano il cappotto, gli sbadigliavano in faccia, lo dileggiavano in mille modi. Ma lui non mollava, continuava a fare lezione sotto la grandine, a predicare nel deserto. E poi, d'un tratto, aveva un'intuizione folgorante. Abbandonava il programma, rinunciava a spiegare Ariosto e Tasso, a leggere quel sonetto di monsignor Della Casa, e tirava fuori dalla borsa di cuoio, dono di laurea, libri misteriosi, le sue passioni. Era giovane e coraggioso, amava la materia, conosceva bene autori ignoti. E così usciva da dietro la cattedra e diceva: leggiamo un brano di Samuel Beckett, leggiamo questa poesia di Rilke, per favore ascoltate tre pagine di questo romanzo sudamericano, guardate queste opere di Burri. Di colpo si aprivano mondi sconosciuti, affascinanti. La scuola grigia e malinconica si faceva da parte, entrava un'aria fresca. Quel professorino gettava semi preziosi a piene mani, e qualcuno attecchiva, qualche studente ascoltava a bocca aperta. Erano così i supplenti, martiri e santi, spesso spernacchiati e qualche volta, per un mese brevissimo e straordinario, amati come mai nessun insegnante di ruolo è stato amato.