Intervista A scuola senza amore.
"Nelle nostre aule manca
la passione, non c'è anima la Repubblica, 4/4/2007
Roma Ragazze islamiche immigrate in Francia s'intestardiscono a sedere tra i banchi velate, ragazzi americani vanno a scuola armati e ogni tanto compiono una bella carneficina, quindicenni (anche più giovani) italiani stuprano le compagne, o fanno minacciose interviste pornografiche alle insegnanti per poi diffondere il tutto su internet. Eccetera. E' un disastro. Come arginarlo? O meglio, come trasmettere ai giovani quel tanto che sappiamo, come ottenere il loro rispetto, come inculcargli un senso di responsabilità e dignità individuale e - perché no? - un po' di curiosità per i fatti del mondo di ieri e di oggi, per i teoremi matematici, per la poesia, e via dicendo? Come tornare a una scuola che sia un luogo dove si va per imparare? «Con l'amore» risponde Edgar Morin, «e non è un'idea mia, sto solo citando Platone». A 86 anni, Edgar Morin, parigino (il suo vero nome è Edgar Nahoum, ma probabilmente ormai l'ha dimenticato anche lui), è ancora oggi un protagonista della cultura francese, nelle cui istituzioni volta in volta occupa posti di rilievo e poi se ne stufa o ne viene escluso per la sua mancanza di convenzionalità. E' infatti un sociologo «scomodo», noto per l'approccio interdisciplinare che lo ha portato a ignorare i confini ufficiali tra le varie discipline in tutti i suoi trenta e passa volumi, molti dei quali sono sulla riforma del sapere, della filosofia e dell'insegnamento. Naturalmente, non ha retto nemmeno nei ranghi del Partito comunista, da cui - dopo aver fatto la Resistenza - è uscito nel '51. Ieri Edgar Morin è stato a Roma per «assistere» il ministro Fioroni nel presentare un suo progetto di riforma. Lo abbiamo intervistato. Lo accompagnava Marco Ceruti, preside della facoltà di Filosofia all'università di Bergamo, e presidente della commissione che ha elaborato i nuovi programmi. Alto, asciutto, agile, maglione sotto la giacca senza cravatta, Edgar Morin porta molto bene la sua figura di «grande vecchio». Il tavolino a cui siamo seduti, in un piccolo e prestigioso albergo del centro, gli sta chiaramente stretto. Siede di sbieco, accavallando le gambe troppo lunghe. Sorride. «Lo so che il gioco è duro», sembra dire, «ma per come sono messe le cose, è l'unico gioco a nostra disposizione».
L'amore poteva essere possibile all'epoca di Platone. Ma oggi c'è la scuola di massa, che pone nuovi problemi. Migliaia di professori possono amare milioni di studenti? «Certo. Se c'è la passione, questa si può trasmettere a dieci bambini o a quaranta. Insegnare è una missione. Una missione laica. Come anche altri mestieri, che so, l'infermiere, il medico, l'avvocato».
L'avvocato!? «Perché no? L'avvocato deve aiutare gli altri a ottenere giustizia. Aiutare. Sono mestieri in cui si aiutano gli altri».
Torniamo alla scuola? «La scuola da sola non basta. Il problema è multidimensionale. C'è un momento, tra l'infanzia e l'età adulta, in cui l'adolescente trasgredisce. E' stato così ai miei tempi, con la Resistenza, e poi col maggio Sessantotto».
Il Sessantotto è un'altra storia. Aveva le sue ragioni, e anche valide. Lo scrisse anche lei, su Le Monde. «Certo, la trasgressione oggi è molto più grave, specie in situazioni particolari, con famiglie disintegrate, genitori separati o disoccupati o magari che fanno uso di sonniferi o vanno dallo psicoanalista. Per i giovani non ci sono certezze sul futuro. Davanti a loro c'è la disoccupazione, e nessuno - meno che mai la scuola - risponde alle loro domande: "perché sono al mondo? Chi sono? Dove vado?". Sembra che la violenza venga dalla scuola, ma in realtà è la scuola che la aggrava».
Addirittura! «Ma sì. Non porta luce, non insegna come affrontare l'incertezza, non dice che viviamo in un'epoca globale. La scuola offre solo una frammentazione del sapere e uccide la curiosità. Le faccio un esempio. Tempo fa, in Francia, andava di moda la semiotica. I professori di letteratura non facevano più leggere i testi, Racine, Voltaire, o che altro, come in passato: prendevano certe pagine e le analizzavano semiologicamente. Risultato: i giovani, che prima amavano leggere, dopo questa "cura", non volevano leggere più. La scuola è priva di anima. L'Emile di Rousseau dice: voglio imparare a vivere».
La scuola non ha mai insegnato a vivere. Specie nei paesi latini. Ha insegnato il sapere dell'epoca, e un metodo. D'altronde, insegnare a vivere non è certo facile, specie ai giorni nostri. «Ha ragione: stiamo vivendo una crisi epocale, la società si sta disintegrando. E nei momenti di crisi, gli adolescenti sono l'anello debole della società, quello dove la crisi si avverte prima. La Resistenza e il Sessantotto sono due esempi molto pertinenti. In entrambe le situazioni c'era la crisi, e gli adolescenti, i giovani l'hanno avvertita e hanno reagito. Oggi la situazione è più difficile, c'è una generale mancanza di senso, e dunque quella degli adolescenti è una crisi nella crisi. La crisi della società occidentale non era mai stata così acuta. Le faccio un altro esempio. Dove la società è coesa, anche in modo non ortodosso, le cose vanno meglio. Una volta feci una inchiesta parallela su un quartiere "difficile" in Francia e in una "favela" brasiliana dominata dalla malavita. Ci crede? La delinquenza era molto minore nella favela. Lì c'erano dei valori distorti, ma c'erano, e tenevano insieme le cose».
Forse la nostra società non ha più niente da dire. «E' probabile. Ha detto e fatto cose meravigliose (anche cose orribili), ma oggi è svuotata, sembra le resti solo la decadenza. E allora, cosa vuole aspettarsi dai giovani? Soprattutto, non bisogna rispondere con la repressione. In Francia, Sarkozy dice che se sarà eletto considererà "adulti" (cioè legalmente punibili) i giovani a partire dai sedici anni. Sarebbe la cosa peggiore. La galera è una scuola di malavita. Bisogna dar ai giovani il tempo di cambiare. Cambiano perfino gli adulti. Perfino gli assassini di Moro si sono pentiti. E vuole che non cambino dei ragazzi?».
Ma se lei non vede altro che decadenza nel nostro futuro... «E' una delle possibilità, ma non l'unica. Siamo a un bivio. Pensiamo al Rinascimento: esso si basa sulla riscoperta umanistica dei Greci. Oggi noi potremmo prendere molto da India e Cina, e poi dall'Africa e dall'America. Per questo dico che la scuola deve essere globale, deve insegnare l'esistenza e la storia di tutti. Adatta a chi è nato a Torino, a Palermo, e anche a Kabul».
Dunque, in concreto, lei è contrario a una scuola affidata alle Regioni? Lei parla di Kabul, ma pensi alle difficoltà che esistono già all'interno dell'Europa: Napoleone studiato in Francia è l'Imperatore, ma studiato in Inghilterra è un grave elemento di squilibrio europeo. Attila studiato in Italia è il flagello di Dio, studiato in Germania è un eroe... «Si capisce che insieme a una storia globale ci vogliono anche le storie locali. Ma bisogna metter anima in quel che la scuola offre. I giovani sono uguali in tutto il mondo: sono giovani esseri umani, fatti di psicologia, di biologia, di curiosità intellettuale. Vogliono conoscere il mistero della vita, l'intimità psicologica che può dare loro la poesia o la letteratura, la filosofia».
E la scienza?
«Sì, ne hanno bisogno ma
la scienza è già molto prepotente, non si lascia mettere da parte. Per
questo dico che, con una coscienza globale, è possibile anche una
rinascita dell'Occidente. Voglio chiudere con la metafora di una
farfalla. E' bella la farfalla, ma prima di diventarlo è un verme. Poi
è una crisalide (i giovani), e infine la farfalla adulta nasce dalla
trasformazione - che è anche una catastrofe - della crisalide. Io non
so come andrà a finire, ma potrebbe capitare anche a noi, se
l'Occidente saprà essere saggio». |