INCONTRO CON IL FILOSOFO Morin: gli insegnanti? Educhiamoli all’incertezza. di Beppe Sebaste da l'Unità del 4/4/2007
C’era una volta quel «rapporto sul sapere» che inaugurò il decennio ’80 del Novecento, portando in auge, forse involontariamente, l’aggettivo «post-moderno» in riferimento alla condizione umana. Si trattava della prima ricognizione sullo stato del sapere e della sua trasmissione, il celebre pamphlet di J.F. Lyotard La condizione post-moderna. Vi si misurava la sostituzione della normativa delle leggi con la performatività delle procedure, e la generale trasformazione dei criteri di validazione o legittimazione non solo del sapere, ma anche della politica, del legame sociale, del «vero» e del «giusto». Cadute le «grandi narrazioni» ideali e/o progetti, scriveva Lyotard, avviene come una saldatura della tecnocrazia su se stessa. Il prevalere del criterio di performatività ha fatto sì che nell’insegnamento prevalgano competenze operative, dei curricola strettamente funzionalizzati. L’eclissi della facoltà del giudizio valutativo, soppiantata dal più povero gioco linguistico della constatazione, reca con sé il pericolo di una idiozia e un ristagno cognitivo evidenti: se il successo (ovvero l’efficacia performativa) di una teoria o di un’azione è il suo unico criterio di validità (pertinenza, legittimazione, funzionalità), dobbiamo ricordare che il successo non si giudica, ma si constata. L’impegno cognitivo richiesto è poco superiore allo zero. Questa stessa sostituzione del giudizio con la constatazione, che elegge il successo a valore, si è impiantata come è evidente nelle scelte politiche (in Italia abbiamo potuto avere un governo di pubblicitari di professione, e ha lasciato il segno) e nelle scelte culturali. Come ogni insegnante sa, tra i giovani la frase oggi più ricorrente è: «cosa lo fai a fare?» «A cosa serve?» «Cosa lo leggi a fare?». Ha ragione Marco Lodoli, scrittore e insegnante, che in una trasmissione televisiva ha detto: gli insegnanti oggi fanno una fatica pazzesca perché nel loro lavoro vanno controcorrente come i salmoni, lottano contro un intero sistema di valori dominanti agli antipodi di ciò su cui si regge l’apprendimento (per esempio la lentezza, la solitudine, il silenzio, e, lasciatemelo dire, anche il valore della noia e della gratuità, cioè della bellezza). Dopo Lyotard, ma anche dopo il lavoro di una vita del grande filosofo e scienziato Gregory Bateson, che per primo formulò il principio del deutero-apprendimento (cioè «imparare a imparare»), hanno suscitato entusiasmo le riflessioni del sociologo francese Edgar Morin, sintetizzate in un paio di libri recenti, tra cui il pascaliano (nel titolo) Una testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero (Raffaello Cortina) e, da poco in libreria, il libro intervista Io, Edgar Morin (Franco Angeli). Al pensiero di Morin si ispira esplicitamente Mauro Ceruti (docente all’università di Bergamo), incaricato dal ministro alla Pubblica istruzione di progettare la riforma della scuola in Italia: «L’obiettivo dell’insegnamento non deve essere riempire il più possibile i programmi scolastici, ma piuttosto offrire delle mappe per organizzare i saperi ed elaborare metodi che siano in grado di fare da bussola negli itinerari personali». Occorre «sviluppare la dimensione sociale dell’apprendimento», «educare alla consapevolezza e alla responsabilità delle relazioni tra microcosmo e macrocosmo», «aggiungere al senso di appartenenza al proprio territorio la consapevolezza di essere cittadini del mondo valorizzando le diverse identità»... Sono alcune delle frasi con cui è stato ieri presentato da Mauro Ceruti, alla presenza del Ministro Fioroni, il documento introduttivo alle Indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione, in un convegno alla Biblioteca Nazionale di Roma. Sintetizzato in tre paragrafi - Centralità della persona, Per una nuova cittadinanza, Per un nuovo umanesimo - vi si delinea una scuola che, di fronte alla potenziale e dispersa ricchezza formativa del nostro mondo ipertecnologizzato e dai saper diffusi, sappia formare saldamente ogni persona sul piano cognitivo e culturale, ovvero, con parole nostre, le insegni a sapere quello che fa. Ceruti fotografa la drammaticità odierna della situazione del sapere con un verso di Eliot: «quanta coscienza si perde oggi nell’informazione». Si tratta, mi spiega, da una parte di chiedersi quale sia la definizione e l’organizzazione del sapere per una cittadinanza del mondo, tra saperi locali e saperi globali. Dall’altra trovare una nuova alleanza tra scienze, arti, discipline umanistiche, in un’integrazione dei saperi in nuovi quadri interdisciplinari, che vada oltre gli specialismi e il valore accordato alla mera informazione. Il richiamo al metodo e alla interdisciplinarietà viene naturalmente da colui che lo stesso Ceruti presenta come «epistemologo principe», Edgar Morin, intervenuto al convegno. Morin ha riproposto l’urgenza di una riunione dei saperi che superi non solo l’iperspecializzazione - che perde di vista ogni finalità del sapere, ogni contatto con la vita e con le domande fondamentali dell’uomo - ma anche quella frattura che data da Cartesio e la sua divisione tra mente e natura oggi superata anche dalla fisica e dalle altre scienze. Nel suo intervento al convegno Morin si richiama a Rousseau: «imparare a vivere», ecco cosa devono proporsi l’educazione e la scuola. Occorre riformare non solo l’organizzazione delle conoscenze, che devono aprirsi al dubbio, alla convivenza con l’incertezza; ma riformare le modalità stesse della conoscenza, il modo di pensare. È bello, nella sua passione di anziano e nel suo accento straniero (ha voluto parlare in italiano) riascoltare un monito alla riunificazione, o quantomeno alla messa in relazione dei saperi, in una coscienza ecologica, «dalla biosfera alla civiltà e alla cittadinanza», dove «a fianco delle scienze fisiche e matematiche convivono l’arte, la bellezza, la letteratura, ovvero la soggettività umana, passioni comprese, e i contesti, insomma la vita, la complessità umana, tenendo conto anche Dostojevski e Marcel Proust, la poesia come iniziazione alla qualità della vita». Può unire ciò che è separato quella nuova scienza delle relazioni che è l’ecologia, che mette appunto in relazione le altre discipline, umane e scientifiche, e che fa risorgere il concetto di natura nel suo senso più ampio.
Ho chiesto a Edgar Morin quale sia nella
traduzione pratica di questa consapevolezza il primo atto dovuto di
una riforma della scuola. Non si tratta forse di qualcosa di più di un
aggiornamento degli insegnanti, dei cosiddetti formatori? «Certo,
occorre prima di tutto riformare i formatori - sorride Morin -
educarli alla transdisciplinarietà e al pensiero dell’incertezza. Oggi
il problema non è certo il relativismo culturale, ma l’assolutismo
culturale, ogni verità è importante, ma non è la verità. Relazionare i
saperi, cambiare il modo di conoscere e di pensare, significa capire
che tutto è armoniosamente da ridistribuire in nuovi paradigmi. Le
scienze, i saperi, sono come il grano, ma il pensiero e la filosofia
sono come il mulino: le une hanno bisogno dell’altro». Gli fa eco
Ceruti, chiamato al difficile compito di presentare una linea di
concreta riforma della scuola: «La riforma deve essere paradigmatica,
del modo di pensare e di organizzare i saperi, o non sarà. Dovrà
essere quindi un’autoriforma degli insegnanti, portando ad esempio
alcune situazioni di eccellenza che nel nostro sistema scolastico
esistono, e comunque non un semplice aggiornamento di vernice,
superficiale». Un nuovo umanesimo significa questo per Ceruti,
«ricomporre i grandi oggetti della conoscenza, dall’universo alla
storia - in una prospettiva complessa, comprenderne le implicazioni,
nella consapevolezza che i problemi della condizione umana si
affrontano in una stretta collaborazione non solo tra nazioni ma anche
tra discipline e culture. E questo può e deve essere imparato sin
dalle prime fasi della formazione». |