Il bullismo delle parole .

Elena Loewenthal La Stampa  del 6/4/2007

 

Matteo aveva 16 anni ed era il primo della classe, al prestigioso istituto tecnico Sommeiller di Torino. Un ragazzino minuto e timido, forte soltanto dei suoi bei voti.

Tutti lo chiamavano Jonathan, proprio come quel tipo un po’ bizzarro che ha avuto il suo momento di celebrità in una trascorsa – e quasi dimenticata – edizione del reality show più nazional popolare che ci sia. Una di quelle creature che paiono uscite da un fumetto esagerato e hanno l’aria spaesata dentro la realtà. Ma per Matteo questo soprannome non era affatto lusinghiero, non era alcun motivo d’orgoglio: fors’anche perché a lui, ch’era il primo della classe, di assomigliare a un simulacro di vip non doveva importare più di tanto. Ma soprattutto perché quel nome era diventato il marchio dell’infamia. «Sei un gay», gli dicevano sempre i suoi compagni, insieme a quel nome. Matteo non era un ragazzino abbandonato a se stesso: né dalla madre, che ha seguito con preoccupata attenzione il suo declino psicologico. Né dalle scuola, che teneva d’occhio la situazione. Non era un «disadattato» – per usare un parola antiquata ma spesso calzante – e nemmeno un adolescente trascurato da chi gli stava intorno. In altre parole, il disagio di Matteo, fino al giorno del suo terribile suicidio, era «monitorato» con tutti gli strumenti, professionali e affettivi, possibili.

Fragilità

Più che mai negli ultimi mesi, quando cioè il suo rendimento scolastico ha cominciato a cedere, e la sua condizione di fragilità permanente è diventata intollerabile: un peso troppo grande per lui. E questo rende ancora più disarmante la tragedia del suo suicidio. Eppure, questo ragazzino per metà italiano e per metà filippino, ha deciso che non valeva la pena vivere, e si è buttato nel vuoto. Andando incontro a quel silenzio che chissà quante volte deve aver desiderato, mentre i compagni gli urlavano addosso i loro tremendi insulti. Perché Matteo non è mai stato picchiato o seviziato. Non ha subito abusi sessuali o soprusi fisici. Si è ucciso a sedici anni perché vittima della violenza più subdola e tossica che ci sia, e che rappresenta l’ultima frontiera del bullismo: quella delle parole. Parole dette, ripetute e urlate fino allo spasimo. Perché questi nostri ragazzi che magari non conoscono l’esistenza del congiuntivo, che hanno un lessico più ridotto ogni giorno che passa, che risparmiano persino sulle vocali e non solo dentro gli sms, hanno imparato troppo in fretta la violenza delle parole. Sanno fin troppo bene quanta aggressività possa nascondersi dentro un’esclamazione, dentro una frase sputata fuori come dalla canna di un fucile.

Come in un reality

In fondo, a raccontarci tutto questo sono proprio i reality show: un mondo finto dove ci sono solo sussurri o grida – e mai dialoghi veri. Dove il linguaggio è un insieme di gesti convulsi, e non un sistema per comunicare. Dove le parolacce dette ad ogni piè sospinto vengono mascherate da squilli potenti, non meno aggressivi dell’insulto che occultano.

Le parole, in questo mondo strano, stanno diventando sempre più approssimative, sempre più insulse e prive di significato. E forse proprio per questo, sempre più aggressive. Cattive. Le male parole, le imprecazioni sboccate, gli affronti gratuiti, soprattutto l’esuberanza di un pregiudizio più duro a morire della spensieratezza di un adolescente, hanno ucciso un ragazzino di sedici anni bravissimo a scuola – almeno fino a qualche tempo fa, prima che la crisi esplodesse – e circondato da occhi vigili e cuori attenti. Questa è una malaugurata colpa, da spartire in molti. È soprattutto una sconfitta terribile, per quei molti. Per lui, che si è arreso alla vita in cerca di un silenzio che spazzasse via le parole di troppo. Per il mondo che gli stava intorno e che non ha potuto far nulla per fermare tutto questo. Per quelle bocche sguaiate che avranno nel resto della vita un tremendo peso sulla coscienza (almeno speriamo). Per le parole stesse, che non meritano questo trattamento e il castigo di portare tanta violenza dentro.

Elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it