Uno sproposito sesquipedale.

Renato Lo Schiavo da DocentINclasse, 20/4/2007

 

L'altro giorno, entrando in sala professori, mi trovo di fronte il collega di latino con un lanternino in mano. Confesso di essermi immediatamente preoccupato, in quanto l'avevo visto appena un paio di giorni prima e mi era sembrato in piena salute mentale. Con un filo di voce mi riesce appena di sussurrare "Che ti succede? Cosa cerchi?"

"Vuoi proprio saperlo? - mi risponde con tono animato ma con voce tutto sommato ferma, buon segno - Sto cercando qualcuno che si pronunci a favore della 'bocciatura' degli studenti, visto che oggi semmai tutti parlano di bocciare la scuola".
Risollevato da un lato, ma timoroso dall'altro, gli esterno le mie scampate preoccupazioni per la sua salute, ma quasi a negare implicitamente il sollievo, cerco di cambiare discorso. Tattica sbagliata: il collega apre la valigetta e mi mette sotto il naso un volumetto di non molte pagine, alquanto liso e squinternato. "Te lo ricordi?" mi dice "E' il pamphlet di un insegnante di greco del liceo classico che, in risposta alla famosa "Lettera ad una professoressa" di Don Milani, indirizza una "Lettera ad una studentessa" sull'opportunità o meno di bocciare nell'attuale stato della scuola italiana: l'attualità era quella del 1978, momento terribile della società italiana (si pensi al caso Moro), ma ogni occasione è buona per rendersi conto dell'enormità della nostra presunzione di stare meglio di ieri".

Prendo l'opuscolo e me lo rigiro per le mani, sfogliandolo con la netta sensazione di un deja vu in pieno corso. L'autore, assunto lo pseudonimo di Orbilius (il maestro del poeta latino Orazio, che torturava i suoi alunni con lo studio di testi arcaici che andavano imparati a memoria a suon di busse), finge di scrivere ad una studentessa 'rimandata' (allora si poteva fare), cominciando col confutare gli argomenti contrari alla bocciatura, a partire da quello per cui "la selezione a scuola è un fatto di classe". Faccio un rapido rinfresco della memoria a medio termine e mi pare di sentire tale affermazione come mia. Deja vu, deja vu, non c'è dubbio.

"Scuola di classe?" dice il collega "E' vero, ma non nel senso grossolano che si promuovano i figli dei ricchi e si boccino quelli dei poveri: per l'autore la scuola (e la selezione con essa) è di classe solo nel senso per cui essa è un'istituzione di una società ancora capitalistica, ancora basata sulla dialettica delle classi. Ma questo particolare è ai suoi fini irrilevante. I meccanismi di classe esistono, e con essi dobbiamo intelligentemente confrontarci".

Provo allora a sfogliare il paragrafo dedicato alla valutazione. Valutare non incoraggia eo ipso al competitivismo individualista, trovo scritto, perché non è affatto vero che in una classe, ogni anno, c'è solo un numero ristretto di promozioni disponibili per cui lottare all'ultimo sangue. Ancora una volta resto di sasso. Sembra una banalità, eppure è un punto fondamentale: quello che oggi si chiama 'successo scolastico' non è legato ad una restrizione numerica, esterna ed indipendente dalla volontà dello studente, cioè da una competizione ad eliminatoria. Non c'è motivo di vedere nei compagni di classe dei pericolosi rivali, né un nipote di Jack lo Squartatore nel docente. In ogni caso oggi come allora il problema non si pone, perché vige il teorema per cui "una scuola ben fatta deve dare a tutti una buona preparazione, e quindi promuovere tutti; una scuola fatta male non ha il diritto di bocciare nessuno".

'Sofisma', 'petizione di principio', sostiene il buon Orbilius: dal fatto che le disfunzioni esistano (eccome...) non deriva "alcuna necessità logica perchè la scuola debba, quasi a mo' di espiazione, concedere illico et immediato la promozione a chiunque".

"Lo vedi?" mi dice animatamente il collega "Per il nostro autore la selezione di 'capaci e meritevoli' (come dice la Costituzione) è uno degli scopi più importanti della scuola; essa in qualche misura vi riusciva (e forse un po' vi riesce ancora adesso) e ciò è un fatto notevole e positivo, perché per disastrosa che possa essere la situazione delle strutture scolastiche (e degli insegnanti in esse), "ebbene, figlioli, questa è la realtà con cui confrontarsi, questo è il dato di fatto su cui misurare la vostra capacità di reazione. Una scuola sfasciata, irrazionale, piena di contraddizioni è - in realtà - un ottimo specchio della vita nella quale dovere proiettarvi quando saranno finiti i tempi felici dell'adolescenza. Una scuola perfetta vi ridurrebbe a placidi e soddisfatti automi, grati a quanti provvedessero ad imbottirvi quotidianamente il capo di nozioni, la cui validità non potreste criticamente vagliare".

"Giusto!" faccio io "Lo diciamo sempre che bisogna imparare per la vita! E delle discipline l'autore cosa dice?" Con una buona dose di pazienza il collega mi dice che alle accuse di dare poco spazio alla scienza ed alle espressioni culturali della nostra epoca per privilegiare invece il passato, Orbilius risponde che ogni storicismo "insegna a storicizzare non solo il passato ma anche, e soprattutto, il presente. A vederlo non come una realtà data, immutabile, ma come il punto di arrivo di un processo, alla cui conoscenza nessuno può legittimamente sottrarsi". Sei d'accordo?"

Mannaggia a quella sensazione di deja vu che mi ronza nelle orecchie e mi impedisce di riflettere. Mi torna in mente una certa battaglia degli anni '60 e qualcuno che mi diceva che la cultura umanistica va difesa, altro che abolita in quanto cultura dei padroni ( a quelli "interesserebbe piuttosto una scuola nella quale vi siano impartite poche elementari nozioni tecniche"); non ricordo chi era stato a rispondermi, quando reclamavamo l'introduzione delle varie antropologie, sociologie, ecc., che esse derivano dal positivismo di fine '800 e sono "scienze, il più delle volte, del consenso e del controllo sociale", le stesse identiche parole di Orbilius. Della diffusione di questo atteggiamento positivista tra insegnanti ed alunni l'anonimo autore trovava conferma nel fatto che la contestazione dei contenuti investe principalmente le materie 'umanistiche', mentre dagli insegnanti di matematica e di scienze naturali si tollera l'alto numero di bocciature: è un tributo pagato allo scientismo imperante, "perchè intimamente siete convinti che quelle materie non siano culturalmente in crisi, che quando qualcosa viene affermata in via matematica, non c'è che da impararla, e zitti, senza possibilità alcuna di discussione e contestazione. E' questo un atteggiamento deteriormente positivista, ma voi, naturalmente, non lo sapete e tirate avanti lo stesso nella contestazione".

"Oddio, qualcosa di questo atteggiamento persiste ancor oggi - dico perplesso - ma la buffonata del debito formativo ha contribuito a dare una forte spallata anche agli spauracchi di un tempo".

"Ma se è crollato anche l'argine del metus mathematicae allora siamo messi proprio male..." sussurra sconfortato il collega, con il lanternino ancora malinconicamente penzolante.

Solo adesso mi accorgo che nella sala è presente anche la collega d'italiano, che ha seguito chiacchierata e recensione con aria alquanto schifata. "Ma si può sapere cosa volete? Ma davvero rimpiangete l'epoca in cui si aveva il piacere sadico di bocciare?"

Chi può restare impassibile se tacciato di sadismo puro? Solo che ogni risposta corre il rischio di essere dettata dall'emotività, cosicché, previo tacito assenso oculare, io ed il collega di latino cerchiamo di rispondere citando ancora Orbilius, secondo il quale la bocciatura è una punizione perché irroga "una certa quantità di disagio", ma bisogna vedere se essa sia "puramente afflittiva o con fini correttivi". Il problema è complicato perché la scuola ha, di fatto, una pluralità di fini, almeno stando a quanto si ripete nei collegi dei docenti di inizio anno scolastico.

La collega mi guarda fisso negli occhi (ma perché guarda proprio me? A cominciare la discussione è stato l'altro collega) e mi sciorina la classica affermazione di un collettivo studentesco del '68: "la scuola serve ad insegnare ad ubbidire a chi dovrà in seguito comandare. Te la ricordi, vero, questa frase?"

Quando mi guardano fisso così, che ci posso fare, io comincio ad annaspare e mi confondo. Fortunatamente arriva in mio soccorso il collega indicando un provvidenziale passo di Orbilius: l'affermazione è errata in quanto posta "in un'ottica di scuola di èlite che già in quegli anni non esisteva più"; oggi la scuola di massa non insegna certa a comandare, e quanto all'ubbidienza, esistono parecchie "sfumature semantiche": a parte l'obbedienza cieca, "esistono altre e più civili forme d'obbedienza, in cui l'assenso al volere di chi è qualificato ad esprimerne uno è sostanziato tanto dalla consapevolezza del fatto che quanto viene ordinato è giusto, quanto dal riconoscimento che chi dà l'ordine è perfettamente in diritto di darlo, perché - ad esempio - la maggioranza dei cittadini a ciò l'ha delegato. Questo è evidentemente il nostro caso. Ubbidire, oggi, significa aderire al sistema democratico".
Ottima puntualizzazione, penso tra me e me, quando mi assale a tradimento un pensiero malandrino: che oggi non si ubbidisca più perché non c'è più democrazia? Ricordo che uno dei libri di don Lorenzo Milani si intitolava "L'obbedienza non è più una virtù", la mente comincia ad annebbiarsi pericolosamente. Per non cadere nel gorgo, cerco disperatamente di stare attento a quanto il collega continua a dire.

"No, cara collega. Come dice Orbilius, la punizione non va vista sul piano dei sentimenti personali ma su quello culturale: da un lato c'è la concezione illuministica della sostanziale bontà del genere umano, per cui una chiara spiegazione può far capire che cosa sia giusto e che cosa sbagliato; dall'altro c'è la concezione semireligiosa della fallibilità e della debolezza intrinseca dell'umanità, per la quale "chi più degli altri a questa miseria riesce a sottrarsi" deve "mettere in riga" gli altri, anche con le punizioni. Questa idea della "sostanziale non autonomia" del genere umano non appartiene ad Orbilius, che però ricorda di essere, nel momento dello scrutinio, un pubblico ufficiale, il che significa di "aver ricevuto, dalla comunità nel suo complesso, una precisa delega ad amministrare, nel proprio campo di competenza, gli interessi generali, al di là d'ogni personale preferenza ed interesse, nonché d'ogni scelta ideologica".

A queste parole sento montare prepotente l'impulso di baciare Orbilius, ma mi frena il fatto che dovrei farlo per interposto surrogato e francamente il collega di latino - gran brava persona, per carità - non è il mio tipo, mentre la collega 'italiano - sicuramente più accostabile ai miei gusti - non recede dalle sue convinzioni e quindi non mi offre motivo formalmente accettabile per adempiere al voto.

"Vi ricordo - ammonisce la collega d'italiano - che Orbilius scriveva nel '78, periodo che aveva visto un nuovo movimento studentesco occupare le scuole e lanciare l'autogestione, per non parlare del fascino che le organizzazioni terroristiche esercitavano anche fra i più giovani, col loro obiettivo di lanciare l'attacco al cuore dello stato: riportare "la più scrupolosa legalità" nella scuola, istituzione dello stato, era in quel momento un compito della massima importanza, che andava svolto "solo applicando, con rigore ed imparzialità, la legislazione esistente", come dice il vostro scrittore. Si vede che voi due siete un lampante caso di non applicazione".

Se per caso c'era una mezza illusione che la collega... insomma, addio sogni di bacio. Intendiamoci, il rammarico è riferito unicamente al suo non aderire all'analisi di Orbilius, che avete sospettato?

Il rammarico da bacio mancato mi ha fatto per un attimo dimenticare la sensazione di deja vu che mi ha accompagnato per tutta la durata della discussione e che adesso si ripresenta in compagnia di un pensiero che potrebbe esserne il paredro risolutore. Mi pare infatti di comprendere che Orbilius sia un ravveduto, uno che dopo aver lottato contro la selezione, l'autoritarismo, il nozionismo ed altri mostri didattici è rimasto deluso dei risultati: "quando mai abbiamo potuto compiacerci per quell'esplosione di cultura alternativa, libera, feconda e geniale, che avrebbe dovuto scaturire prepotente da voi una volta allentate le pastoie dell'autoritarismo e del nozionismo?"

Mentre Italiano e Latino si fronteggiano quasi in cagnesco, in uno stato di semincoscienza mi esce di bocca uno sproposito sesquipedale: "Eh sì, l'amarezza di Orbilius è la nostra: noi siamo tanti Orbili orbati delle illusioni dei nostri verdi anni - di verde c'è rimasta soltanto la situazione economica, intonata alla bile che rivela immediatamente il colorito della nostra anima...".

Prima che qualche scemenza peggiore (ri)esca a fare compagnia a queste parole, Italiano e Latino fuggono precipitosamente. Trasognavo? M'è parso che si tenessero per mano.