A scuola fino a diciotto anni.

di Carlo Avossa, Senago,  da ReteScuole del 24/9/2004

 

Se possiamo e dobbiamo aprire una battaglia culturale per sviluppare un'idea di buona scuola per la Repubblica, dobbiamo farlo anche a partire dalla vexata quaestio dell'obbligo scolastico.

Tranciando per semplicità il problema: sono più di dieci anni che la sinistra nostrana subisce quella che Gramsci chiamava l'egemonia culturale della destra. Conseguenza: parole d'ordine della destra sono diventate parole d'ordine della sinistra.

Questo è il senso che si può attribuire alle idee di assolvimento dell'obbligo "formativo" in un sistema misto: un po' a scuola, un po' fuori della scuola.

La strada per riprendere l'egemonia culturale è lunga, ma se non la iniziamo mai non avremo alcuna possibilità.

Attualmente l'alunno dai 6 ai 14 anni si trova sotto regime di obbligo scolastico, dai 14 ai 17 sotto quello di diritto-dovere, dai 17 ai 18 sotto quello di obbligo formativo.

Cioè siamo al delirio.

Di fronte ad esso il popolo della scuola che si è battuto contro la riforma Moratti e per una buona scuola deve avere il coraggio di rivendicare le parole d'ordine contenute nella Legge di Iniziativa Popolare che è stata presentata al Parlamento: obbligo fino ai 18 anni, da assolvere a scuola.

Per farlo è necessario smentire le argomentazioni del viceministro Bastico.

Il viceministro dice che la nostra scuola superiore è così incapace di tenersi dentro gli alunni difficili, i meno capaci ed i più svogliati che deve rinunziare al compito.

Ma sarebbe più accorto, invece, costruire una scuola che sia capace di tenere quegli alunni.

In un discorso il viceministro Bastico ha fatto l'esempio di Napoli: ve li immaginate nella scuola superiore i ragazzi di Scampia, quartiere dove le maestre fanno fatica a portare alla scuola elementare i bambini? Perciò l'obbligo andrebbe "incernierato" con la formazione professionale.

Ma se ragioniamo in questi termini siamo alla rassegnazione: alla stessa stregua dovremo dire che a Napoli, non potendo battere la camorra, dovremo conviverci!

Appare inoltre un inganno sostenere che una giornata a scuola ed una giornata in una unità produttiva siano ugualmente formativi. Non è vero.

Raffaele Mantegazza, docente all'Università della Bicocca di Milano, sostiene che esista una differenza sostanziale tra la scuola e quello che c'è fuori di essa: questa differenza è nella simulazione. Io, insegnante, se voglio insegnare, non precipito i miei alunni nella realtà, ma creo un ambiente protetto che emuli gli aspetti della realtà affinchè i ragazzi si misurino con quelli, ed imparino senza rischi. Questo non vuol dire costruire una campana di vetro!

Vuol dire che se insegno a nuotare devo farlo dove non potranno affogare, non li butto nel mare.

Vuol dire che non farò fare agrimensura (vera e propria) ma geometria, e così via.
L'idea di assolvere l'obbligo in toto o in parte davanti a un tornio di un'azienda è un vulnus a questo concetto.

Vogliamo dire che scuola ed extrascuola siano la stessa cosa?

Sarebbe pedagogicamente infondatissimo.

Il che non significa che io, docente, non devo portare gli alunni a vedere da dentro che cosa sia un'industria alimentare: ce li porto; ma certamente mettendoli dentro a fare gli operai non impareranno che cos'è un'industria, ma che cosa deve fare un operaio. E qui, forse, casca l'asino.

Quest'idea è funzionale ad un modello di società che perpetua le differenze.

Ma quand'anche si volesse solamente formare degli operai che sappiano fare il loro lavoro, sarebbe impensabile un livello di scolarizzazione basso come quello di vent'anni fa: cioè sarebbe semplicemente anacronistico. Infatti non si può insegnare a fare un lavoro senza sapere che lavoro si sta facendo. Cioè occorre una visione più ampia del mondo, della società, della vita.

Ma sarà semplice elevare l'obbligo a 18 anni?

Senz'altro no: abbiamo un livello di dispersione scolastica esagerato già adesso; elevando a 18 anni l'obbligo corriamo il rischio di dover inseguire centinaia di migliaia di ragazzi che non ne vogliono sapere di stare a scuola. Sarà necessario impedire un simile scenario e non sarà cosa facile.

Ma non lo è stato nessuna delle volte che l'obbligo è stato creato e poi via via innalzato.

Il fatto che sia lo Stato a porre l'obbligo ha un valore eccezionale e simbolico: lo stesso valore che avrebbe il sancire che deve essere a scuola che tale obbligo vada assolto.

Non esistono ricette salvifiche, ma sarebbe sensato potenziare, incoraggiare, promuovere tutti i progetti di lotta alla dispersione scolastica, a cominciare dalla scuola dell'infanzia. La prevenzione primaria del disagio scolastico comincia di là.

Se volete, potete chiamarla promozione del successo scolastico: il Dipartimento di Psicologia della Salute della Sapienza di Roma raccomanda di utilizzare la categoria mentale della promozione del successo e non quella di prevenzione del disagio.

Ma forse da qualche punto di vista è un problema nominalistico. La cosa importante è che tutte le scuole, di ogni ordine e grado, periodicamente si chiedano: "Come stanno i miei alunni a scuola?". Devono farlo in maniera scientifica, si devono far aiutare a farlo. Devono porre rimedi agli aspetti del proprio essere scuola che sono "difficoltogeni", creano la difficoltà scolastica.

Questo potrebbe essere il quadro dell'innalzamento dell'obbligo scolastico.

Certo, bisognerà andar per gradi. Prima di tutto occorrerà sgombrare il campo da quel guazzabuglio che ha creato il Ministero Moratti; ma poi sarà indispensabile inizare a costruire una scuola nella quale sia bello andare, una scuola alla quale tutti dovranno andare fino a diciotto anni.