Il nuovo obbligo scolastico non può escluderla
se vuole vincere la dispersione.
La sfida della formazione.
Sbagliato esaurire nell'istruzione il biennio in
più
Italia Oggi del 26/9/2006
Puntualmente, l'avvio dell'anno scolastico viene
accompagnato da rilievi critici sulle debolezze e i ritardi che il
nostro sistema scolastico e formativo mostra, specialmente in termini
comparativi con le altre esperienze dei paesi più avanzati. Gli ormai
elevati livelli di istruzione conseguiti dalle generazioni più recenti
di per sé mettono in evidenza le difficoltà in cui viene a trovarsi la
quota di giovani dispersi, che non completano un percorso di secondo
ciclo, neppure con il conseguimento di una qualifica professionale:
sono ancora molti, troppi, e sfiorano il 30% delle rispettive classi
di età. Allo stesso modo, non è tollerabile che la crescita in
quantità rischi di avvenire in un contesto di deterioramento delle
performance in termini di conoscenze e di competenze. Ne risentirebbe
la stessa capacità competitiva delle imprese (che non a caso mostrano
un forte interesse in questo senso), ma risulterebbe soprattutto
compromesso l'obiettivo dell'equità, la possibilità di offrire a tutti
le stesse chance di valorizzazione di sé e delle proprie capacità
attraverso l'istruzione e la formazione.
È all'interno di questa prospettiva, interessata all'importanza degli
ordinamenti, ma non fino al punto di ipotizzarli come risolutivi del
senso e del ruolo della scuola nella società, che andrebbe collocato
il tema dell'obbligo di istruzione a sedici anni, punto qualificante
del programma di governo, e come tale difficilmente eludibile, ma che
non a caso viene proposto all'interno di una prospettiva di moratoria
rispetto a una nuova ipotetica riforma generale della scuola.
Spetterà al legislatore trovare le modalità di raccordo fra
l'introduzione del biennio e la normativa vigente che fa riferimento
alla legge 53, in particolare il decreto 76, e di conseguenza alla
persistenza di un diritto-dovere per un arco di dodici anni iniziali.
Un diritto-dovere che è bene resti tale come espressione di una
concezione dell'educazione che valorizza la soggettività e la
responsabilità dei giovani e delle loro famiglie piuttosto che una
cogenza normativa che è utile ricordare, ma che semmai va posta a
carico delle istruzioni (nazionali e locali) cui compete assicurare le
condizioni per un suo pieno assolvimento.
È importante invece che si crei un consenso il più largo possibile
(non si sostiene che la scuola è di tutti?) sulla definizione del
biennio costitutivo del nuovo obbligo, del suo significato, dei
compiti che gli saranno attribuiti. Se l'ordinamento complessivo non
cambia, è ovvio che il biennio non potrà avere alcun carattere di
terminalità e quindi dovrà proiettarsi verso i percorsi successivi,
liceali e dell'istruzione e formazione professionale. In caso
contrario dovrebbe essere considerato, (e come tale realizzato), parte
finale del primo ciclo di istruzione, con uno scivolamento verso il
basso.
Qui sta però il problema dell'identità, se così si può dire, del
biennio di istruzione, che dovrà assommare il carattere della
continuità verso l'alto con quello della percorribilità in
orizzontale, anche per poter assicurare un'accettabile reversibilità
delle scelte tra i diversi percorsi.
Delle possibilità e dei limiti di questa percorribilità, si è a lungo
discusso, ma per lo più all'interno di un equivoco che traduce
l'orizzontalità di termini di ripartizione fra saperi comuni e saperi
propri dei percorsi cui il biennio dovrà afferire.
Il problema è diverso: l'obbiettivo non potrà essere altro se non
quello di assicurare un'equivalenza formativa. Occorre cioè costruire
un core curriculum proposto secondo un diverso concetto di formazione
generale, fondato su competenze chiave di cui occorre definire
standard precisi, così come si è fatto peraltro in sede di Conferenza
stato-regioni a proposito dei trienni sperimentali con i protocolli
stipulati tra ministero (oggi della pubblica istruzione) e regioni in
questi anni. In tale prospettiva trova soluzione anche il problema
della presenza della formazione professionale, nodo storico di ogni
tentativo di riforma del secondo ciclo del sistema di istruzione e
formazione.
La non terminalità del biennio di istruzione costringe in qualche modo
a ipotizzare percorsi coerenti e per questo autonomi anche per
l'acquisizione di una qualifica, e che però sono egualmente in grado
di assicurare un'adeguata equivalenza formativa nell'ambito del
biennio di istruzione, se questa equivalenza non coincide,
semplicemente e alla fine inefficacemente, con una sommatoria di
discipline. Anzi, occorre aggiungere che proprio la peculiarità
pedagogica e didattica della formazione professionale è parsa in grado
di contribuire con successo a contrastare il fenomeno della
dispersione che è uno degli obiettivi più qualificanti del biennio
insieme con quello di rafforzare, per tutti, una capacità di
cittadinanza attiva. Non è un caso del resto che è nelle iniziative
pur diverse e variegate condotte a livello regionale che si è
manifestata una particolare effervescenza e vitalità, mentre i
percorsi sperimentali triennali ricordati hanno coinvolto, con esiti
interessanti anche rispetto ai rientri scolastici oltre 120 mila
allievi. Oltretutto, un'indicazione preziosa che ci viene da queste
esperienze è connessa al loro carattere sperimentale ed è quindi a
questa dimensione di sperimentazione che dovrebbe essere legata
l'introduzione dei bienni, per quella progressiva messa a punto
richiesta dal loro carattere di forte novità. In ogni caso, è evidente
che una prospettiva che assuma il biennio come esperienza unitaria e
non unica, quindi differenziata rispetto alla pluralità dei possibili
percorsi del sistema educativo, può contribuire ad attenuare la rigida
dicotomia presente nell'ordinamento della riforma Moratti;
valorizzare, a partire dai nuovi trienni dell'istruzione e della
formazione professionale, l'offerta a carattere professionalizzante,
attraverso percorsi che, con un quarto anno o più, possono
rappresentare uno dei segmenti di riferimento per quella formazione
professionale superiore non accademica, che costituisce uno dei punti
di debolezza della nostra scuola e insieme una esigenza sempre più
avvertita da parte del sistema produttivo. Fra l'altro il rapporto fra
il biennio stesso, l'istruzione tecnica e professionale e il ruolo
delle regioni ripropone il problema di tale ruolo nel contesto più
generale del titolo V della Costituzione. Ma proprio per questo
varrebbe la pena di risolvere rapidamente le implicazioni legate
all'attuazione dell'obbligo di istruzione (compreso il ruolo delle
agenzie formative accreditate) e fare della scuola, di tutta la scuola
nel suo senso lato, un'appassionata meta collettiva della società,
oltre ogni interesse parziale o confine ideologico.