Allarme del presidente del Censis De Rita: sviliti e sottopagati
Ridare spazio al merito come fece il ministro Berlinguer.

Insegnanti ridotti a impiegati.
così la scuola non ha futuro.

di Massimo Franchi, da l'Unità del 14/9/2006

 

DA «INNAMORATO», Giuseppe De Rita ne ha studiato l’evoluzione per più di trent’anni. Oggi che la scuola sta riaprendo i battenti del dopo-Moratti, il presidente del Censis indica soprattutto una priorità: riqualificare gli insegnanti, rimotivarli, restituire loro un «ruolo», la vecchia «missione dell’insegnamento».

 

Professor De Rita, che scuola è quella che riparte in questi giorni?

«Una scuola che da decenni non ha un’idea precisa del rapporto con la società. Una scuola che non ha più attrattiva. A 15 anni molti ragazzi preferiscono andare a fare l’aiuto carpentiere, l’aiuto gelataio. La prospettiva di investire 3 anni di vita e poi di dover studiare fino a 26 anni e non aver la certezza di costruirsi una vita li spinge a questa scelta. In questo senso siamo schizofrenici: o a lavorare a 14, o a studiare fino a 26».

 

Il punto critico è quindi la scuola secondaria?

«Sì, negli ultimi decenni abbiamo assistito ad uno svuotamento di significato della scuola secondaria che invece fino agli anni ‘60 era la vera ricchezza del nostro paese. La scuola secondaria formava geometri, ragionieri e poi c’erano le scuole professionali, c’erano i corsi post-diploma. Si formava il tessuto intermedio della società italiana, il segreto del nostro sviluppo».

 

Proprio la Moratti ha cercato di riproporre questo schema con la scuola azienda, la scelta tra scuola e formazione professionale. Alla prova dei fatti non è parsa una grande idea..

«Era una risposta coerente dal punto di vista intellettuale, ma è fallita perché l’idea del liceo tecnologico è una bestemmia in termini: sono due modelli opposti che non possono essere uniti. La società nel frattempo è cambiata. Una certa cultura familiare ha portato al recupero dello studio generalista, filosofico, al ritorno in auge del liceo classico al boom delle facoltà umanistiche».

 

In questo quadro come ridare attrattiva alla scuola secondaria?

«Bisogna ricollegare la scuola ai bisogni della società. Bisogna creare un biennio professionalizzante, non generico, non umanistico. Poi, per carità, insegnare l’italiano, le lingue è sacrosanto, ma servono tecnici. Il triennio può essere più comune e preparare all’università. Negli ultimi tempi è successo il contrario: le lauree triennali hanno trasformato l’Università in un super-liceo. Più in generale, per cambiare registro bisogna partire dall’alto immettendo competizione in tutti i settori, per trainare il cambiamento bisogna far capire che la formazione è essenziale alla competizione sociale e allo sviluppo del paese».

 

Il ruolo degli insegnanti in questo senso è fondamentale. E invece negli ultimi anni hanno dovuto fare i conti con un calo degli stipendi e della considerazione sociale e una precarizzazione del loro lavoro.

«Il loro ruolo è stato svilito. C’è un aspetto odioso, ma reale nei fatti: l’impiegatizzazione dei docenti. Ormai fanno parte del pubblico impiego e per questo si pensa che debbano essere pagati come degli impiegati. L’insegnamento era una missione ed era vissuto come tale, come mi ha mostrato mia madre. Quel tempo non può tornare e ora il corpo insegnante è frustrato. Per rilanciare la professione e motivare i docenti bisogna ridisegnare il loro ruolo, la loro funzione. Devono riscoprire il gusto di sapere più degli altri, di essere un punto di riferimento totale per i loro studenti. Per farlo bisogna dare spazio alla valutazione, alla meritocrazia. In questo senso Berlinguer fu coraggioso: dopo di lui non si è più tentato».

 

La scuola italiana è a livello europeo?

«È 45 anni che leggo raffronti con gli altri paesi su ogni argomento e non ne ho mai tratto insegnamenti. È meglio guardarci dentro e pensare ai nostri problemi. Negli anni ‘70 il modello era la Germania, ma ora non dobbiamo averne».

 

Intanto le nuove tecnologie stanno creando nuovi analfabeti...

«Io sono uno di questi rispetto ai miei nipoti. Il problema è che i ragazzi apprendono a prescindere dalla scuola, da soli».

 

Ultimo tema: l’integrazione. Tutti concordano sul fatto che la scuola è lo strumento migliore: lo sfruttiamo bene?

«Nelle scuola primaria l’integrazione è vera ed inevitabile. Il problema è dopo. Quando diventato grandi per i ragazzi immigrati l’integrazione è socio-economica e non socio-politica: nel lavoro fanno quello che noi non vogliamo fare più e allora non ci sono problemi. Il pericolo di un modello inglese lo vedo di più fra gli immigrati che studiano. Se gli italiani che arrivano a 25 anni e non trovano lavoro ormai si arrangiano, nelle stesse condizioni gli immigrati potrebbero diventare un elite contestataria, rabbiosa. Ma per ora è un rischio lontano».