Cattivi insegnanti. di Fabio Brotto, da Croniconica XLIII, 11/9/2006.
Si può essere cattivi insegnanti in molti modi, anzi in moltissimi, e lo si può essere anche a dispetto di una viva intelligenza e grande apertura culturale, della pratica delle innovazioni didattiche, e anche del successo conseguito presso allievi e famiglie, se lo spirito è intimamente guasto. Una delle tante anime grandi liquidate dalla Rivoluzione sovietica, e una delle supreme, Pavel Florenskij, raccontando ai figli la sua giovinezza ( Ai miei figli. Memorie di giorni passati, Mondadori, Milano 2003), evoca ad un certo punto una figura della quale era stato intimo amico prima di scoprirne la tabe profonda: El'čaninov, che fece l’insegnante.
Per ogni occasione inventava nuovi metodi di insegnamento, risvegliava le menti e l'interesse, stimolava. Con lui si studiava con passione, ai suoi ammonimenti si obbediva volentieri e li si adempiva persino, e nella maggior parte dei casi egli poteva portare i suoi allievi dovunque volesse; solo di rado gliene capitavano di tali a cui non ispirava fiducia e che non lo amavano affatto. Il programma di studio veniva assimilato e tutto pareva filare liscio. Di fatto, invece, El'čaninov strappava il bambino alla sua famiglia e, senza che il poveretto se ne rendesse conto, gli istillava la sfiducia verso il prossimo e gli insegnava a prendere le distanze dagli altri; l'allievo scopriva un punto di vista nuovo per lui, vuoi di sufficienza sprezzante, vuoi di biasimo e riprovazione verso i suoi genitori e tutti gli altri; da quel momento tutto e tutti gli parevano meschini, prosaici, gretti, così come convenzionali e insignificanti erano gli obblighi e i rapporti quotidiani. Era una sorta di ebbrezza, ma non come l'ebbrezza era innocente. Strappati i fili della vita e andatosene, El'čaninov lasciava nell'anima la zizzania, un senso di vuoto e una ferita alla quale si univano il veleno di un'eccessiva autostima e le pretese alla vita che essa implicava. (p. 260)
Questo passo mi ha ricordato un episodio significativo della mia giovinezza di insegnante. Il peggiore. Ottobre 1977. Mi hanno appena nominato (dall’anno prima sono incaricato a tempo indeterminato) in un liceo scientifico. Due classi. Entro in una delle due (una quarta) e trovo tutti gli studenti seduti coi banchi disposti in cerchio. Alla mia osservazione immediata che preferirei una disposizione tradizionale, mi rispondono che così sono stati abituati dal rimpiantissimo insegnante di italiano dell’anno precedente, che è passato all’università e di cui serbano un ricordo struggente (ovviamente di ciò la Preside non mi ha minimamente avvertito – si sa che gli insegnanti giovani sono carne da cannone, e d’altro canto non c’è di peggio che dover sostituire in cattedra un idolo). Mi dicono che loro in classe non facevano lezioni, ma tenevano seminari. Non si sentono studenti comuni, secondo il modello della società borghese. L’insegnante-idolo, a sua volta, doveva sentirsi una specie di Lacan. Infatti, andando a vedere i registri dell’anno prima, mi accorgo che non sono annotati argomenti di lezioni, ma vaghissimi Seminario su Propp, Seminario su Deleuze, e così via). Canti della Divina Commedia letti: zero. Professore tuttavia giudicato eccelso da studenti e famiglie. Convinzione radicata in tutta la classe che la malattia mentale non esista, e i pazzi siano i borghesi che si ritengono sani, che la società sia di merda, e così via. Ovviamente nella classe c’è un allievo leader. Un autonomo, membro di un collettivo violento. Non studia nulla. Fuma molta erba. Sa tutto quello che deve sapere, sul mondo e l’ultramondo. Gli altri allievi, comprese le figlie di famiglie ricche e potenti, perdono le bave per lui. Fanno tutto quello che dice, obbediscono a ogni suo cenno. L’idolatria che si riversava sul professore ora è diretta al compagno. Durante l’anno scolastico 1977-1978 ne succedono di ogni sorta. Compreso un attentato dinamitardo alla casa della Preside. Il giovane leader finisce per alcuni giorni in carcere. Torna a scuola con l’aureola del martirio. Quell’anno sono riuscito a spiegare due canti di Dante. Per descrivere bene quella situazione, occorrerebbe un Dostoevskij. Anni dopo venni a sapere che un ragazzo della classe, che allora mi era sembrato un innocuo pacioccone, si trovava rinchiuso in carcere, condannato per rapina a mano armata. Parafrasando appena Florenskij, potremmo dire che quel docente mio predecessore aveva lasciato nell'anima degli studenti di quelle classi la zizzania, un senso di vuoto e una ferita alla quale si univano il veleno di un'eccessiva autostima e le pretese alla vita che essa implicava. Se v’è un modo malsano di accrescere l’autostima dei ragazzi e delle ragazze, e trasformarla in veleno, questo modo nella scuola v’è stato e vi è ancora. Ma è un modo plurale, anche se la sua radice è una sola: la fuga dalla ragione. |