Il caso della scuola è un paradigma dei ritardi e delle inefficienze
che affliggono la società italiana

 La scuola in crisi non "buca" il video.

Ma quello che è veramente esilarante nel dibattito sulla scuola
è che il più delle volte sembra un dialogo tra sordi, in cui gli illustri partecipanti
non paiono minimamente prendere in considerazione l'ipotesi che contro la propria ricetta esistano opzioni radicalmente diverse.
(da "Perché non sarò mai un insegnante"
di Gianfranco Giovannone – Longanesi, 2005 – pag. 25)

Giovanni Valentini, la Repubblica del 21/10/2006

 

Nella babele mediatica che si va innalzando giorno dopo giorno intorno alla finanziaria del governo Prodi, il caso della scuola è un paradigma dei ritardi e delle inefficienze che affliggono la società italiana, deprimendo la competitività del nostro Paese sul piano internazionale. Un argomento troppo delicato e complesso per i talk-show televisivi, tanto più per quelli del servizio pubblico distratti spesso da temi più futili e più frivoli. La crisi della scuola non "buca" il video, come si usa dire, non fa audience, non fa ascolti e non "tira" pubblicità.

Eppure, nella società della conoscenza, è una questione cruciale per la crescita di un Paese moderno, per la sua capacità di competere a livello globale, e in definitiva per la sua ricchezza e il suo benessere. Ma la querelle che s´è accesa sui tagli alla scuola, previsti in questa controversa finanziaria, assomiglia più a una commedia degli equivoci (o se si preferisce, degli inganni) che a un confronto fra interessi legittimi. Al fondo, in una confusione di dati e di cifre, c´è una resistenza corporativa, una difesa di posizioni acquisite, che non giova né agli insegnanti né tantomeno agli studenti.

Il punto di partenza è che, per effetto dello "sboom" demografico, negli ultimi quarant´anni la forbice tra queste due componenti è andata progressivamente allargandosi. Dal 1960 al 2000, gli studenti sono diminuiti del 37% mentre gli insegnanti sono aumentati del 40%. E dunque, in base a una tendenza che appare destinata a continuare anche se sarà compensata in parte dall´immigrazione, si può ragionevolmente prevedere che in futuro la domanda potenziale di istruzione e formazione professionale in Italia risulterà minore che negli altri Paesi europei.

Bocciata anche dall´ultimo Rapporto dell´Ocse (l´Organizzazione internazionale per la cooperazione e lo sviluppo economico), la nostra scuola costa troppo e rende poco, restando così in coda alla graduatoria europea. Con un investimento complessivo di circa 50 miliardi di euro all´anno, lo Stato finanzia soprattutto una legione di 720 mila insegnanti, a cui ne vanno aggiunti oltre centomila fra precari e supplenti. Sono il 30% in più della media europea e, secondo le stime degli esperti, si potrebbero ridurre in prospettiva di 200 mila addetti, con un risparmio annuale valutato intorno ai 50 milioni di euro. Ma naturalmente bisogna fare i conti con un partito di un milione di persone che, compresi i familiari, arriva a contare quattro o cinque milioni di voti.

È vero – come sostengono i sindacati, contestando i tagli della finanziaria e chiedendo maggiori finanziamenti – che questo stanziamento corrisponde al 3,5% del nostro Prodotto interno lordo, contro il 3,8 della media europea. Ma la cifra va rapportata al numero complessivo degli studenti che sono all´incirca 7,5 milioni: ne deriva che la spesa pro-capite supera del 20% quella europea, con un rapporto di 1 insegnante per 10 studenti, mentre nel resto d´Europa è di 1 a 13.

L´effetto di questa proliferazione del corpo docente, alimentata ovviamente anche da ragioni elettorali e clientelari, è doppiamente negativa. Da una parte, sottrae risorse per altri investimenti che pure sarebbero necessari: dall´edilizia scolastica che spesso non è a norma fino alle biblioteche e ai computer. Dall´altra, danneggia gli stessi insegnanti costretti ad accontentarsi di stipendi modesti, circa il 10% in meno della media europea, che non gratificano adeguatamente un lavoro di tale impegno e responsabilità, né consentono di aggiornarsi sul piano culturale, comprare libri, andare al cinema o al teatro.

Come uscire, allora, da questa tenaglia? Secondo le analisi di "Treelle", l´associazione non profit che studia i sistemi educativi, basterebbe bloccare o ridurre il turn-over anagrafico naturale, non sostituendo o sostituendo solo in parte gli insegnanti che ogni anno vanno in pensione: dagli 8 mila del 2004 ai 37 mila del 2014, per un totale di 300 mila persone. Nell´arco di un decennio, con una riduzione del 2% all´anno, la situazione si normalizzerebbe gradualmente per assestarsi al livello europeo. E così, finalmente, anche gli insegnanti italiani potrebbero guadagnare come i colleghi francesi o tedeschi.

Il paradosso è che i nostri, pur essendo più numerosi, in realtà lavorano il 6-7% in meno: 612 ore l´anno, contro una media europea di 663 e una media Ocse di 714. Ma è sintomatico il fatto che, in base a un´indagine realizzata dall´istituto Iard tra docenti e dirigenti scolastici, a fronte di un 30% considerati da loro stessi "bravi" e un 49% ritenuti "adeguati", 21 su 100 vengono definiti "inadeguati". E comunque, se potesse tornare indietro, la maggior parte dichiara che farebbe ancora l´insegnante (74% nella scuola elementare, 72% in quella media e 69% in quella superiore).

Abbiamo tutti bisogno, dunque, di una scuola migliore, di insegnanti e studenti migliori, per preparare le nuove generazioni a competere sul mercato globale. È un nodo che va sciolto una volta per tutte nell´interesse generale del Paese. La vittoria ai Mondiali di calcio, amplificata dall´audience televisiva, può contribuire a rilanciare l´immagine dell´Italia nel mondo. Ma occorre una scuola più efficiente, più dinamica, più adeguata alle esigenze della società moderna, per rilanciarla nell´economia della conoscenza.