L'INTERVENTO

Meritocrazia per studenti e docenti
contro il declino delle nostre università.

Oggi il sistema non premia come dovrebbe
i docenti più preparati e i giovani di talento.

Gianni Ravelli*  da Il Corriere della Sera ed. di Milano, 15/10/2006

 

Dunque, l'eccellenza universitaria di Milano non esiste. O, meglio, non esiste più. Almeno a giudicare dalla classifica stilata dal Times, che non include, fra i primi duecento atenei del mondo, alcun istituto universitario milanese. Non è migliore la situazione romana, che vede l'Università La Sapienza piazzata al fondo della classifica, al 197?posto, dopo avere perduto in un solo anno settantadue posizioni.
La classifica può apparire impietosa, ma la freddezza dei numeri fotografa una situazione purtroppo reale. Come scrive Giuseppe Remuzzi nel suo commento, «da noi le università sono fatte soprattutto per i professori che — se hanno 35 anni di anzianità — sono pagati bene anche se non pubblicano» e «i rettori vorrebbero più soldi dal governo, ma non serve se i soldi si continuano a distribuire fra troppe università che fanno tutte più o meno le stesse cose». Certo, esistono delle eccezioni di qualità, come il distaccamento della facoltà di Architettura del Politecnico a Piacenza, nata per accontentare un ampio bacino di utenza decongestionando la sede milanese. Ma, nella maggior parte dei casi, le piccole università, che si sono moltiplicate negli ultimi anni, hanno semplicemente il fine di accontentare clientelismi politici e non vengono certo tenute in piedi per gli interessi degli studenti.

Remuzzi auspica poche e chiare regole: basta con i concorsi (che, come sappiamo tutti, non premiano il valore); basta con i professori che non producono e con il valore legale delle lauree; sì, invece, a maggiori scambi con altri atenei d'Europa, a università con rette più alte per chi può pagare e con borse di studio (dignitose, vorrei aggiungere) e alloggi gratuiti agli studenti di valore che non hanno disponibilità economica. Vorrei aggiungere che — soprattutto in un momento in cui le risorse pubbliche scarseggiano — sarebbe necessario puntare sulla «meritocrazia». Che non è affatto — come la nostra classe politica sembra credere — una «parolaccia», ma un termine di paragone assolutamente democratico, che dovrebbe riguardare non soltanto gli allievi ma gli stessi docenti. Che senso ha mantenere in piedi corsi frequentati da pochissimi giovani nei quali, spesso, il contributo del titolare della cattedra è nullo o quasi? Non sarebbe meglio destinare queste risorse ad attività più utili a un numero maggiore di studenti? Ma questo è soltanto uno dei moltissimi esempi. Questo non vuol dire che nelle nostre università non insegnino ottimi docenti: ma il sistema non li premia come dovrebbe.

La causa principale dei mali dell'università italiana ha un nome: «corporativismo». Un corporativismo (e voglio usare un termine di stampo non certo democratico) che protegge gli interessi delle categorie a tutto svantaggio dei cittadini e che nessuno, purtroppo, ha avuto e avrà il coraggio di smantellare. Finché il corporativismo rimane in piedi, non illudiamoci di vedere migliorare la società. E neppure l'università.



*  Politecnico di Milano