Contra Ostellinum.

di Fabio Brotto, 29/10/2006.

 

La scuola italiana è idealista, mentre quella anglosassone è empirista. La seconda va bene, mentre la prima è arcaica, non adatta al mondo contemporaneo, è malata di filosofia. Questo è il senso dell’intervento di Piero Ostellino sul Corriere della Sera del 21 ottobre, dal lungo titolo La scuola malata insegna a chiedersi il “perché” e non il “come” delle cose. Ora, io penso che la scuola anglosassone sia afflitta oggi molti problemi e guai, e stia producendo generazioni di semianalfabeti, come quasi tutte le scuole dei paesi occidentali, e che quindi l’impostazione ostelliniana sia minata da fallacie e sviante. È opportuno, tuttavia, leggere integralmente la sua argomentazione, che non mi pare molto legata al dubbio, sotto la cui rubrica (appunto Il Dubbio) è posta.

In Italia decenni di cultura ideologica impediscono una metodologia empirica della conoscenza

Parlo a un seminario del Rotary per propri dirigenti e dico che, fra i mali che affliggono questo Paese, c'è il panfilosofismo, cioè l'incapacità della nostra scuola di insegnare ai giovani una metodologia empirica della conoscenza. Non dico niente di nuovo. Scrive Giovanni Sartori: «La filosofia si impernia su un concipere, e per esso sul conceptum; laddove la scienza si fonda su un percipere, e per esso sul perceptum. In filosofia il "perché" delle cose è anteposto al "come", a come le cose sono; laddove nel conoscere scientifico il "come", e cioè la descrizione e l' accertamento, precedono e condizionano il "perché", la spiegazione (...) Quand'è, allora, che la filosofia esorbita dalle proprie competenze e mansioni? È presto detto: quando la filosofia - o chi la cita e utilizza a sproposito - si presenta come un sapere applicabile, come una teoria suscettiva di attuazione pratica (...) Sono venticinque secoli che tentiamo di applicare alla polis dei "programmi filosofici": da Platone a Marx. Regolarmente, sistematicamente, la conversione della filosofia in prassi fallisce: l'esito ha sempre tradito le intenzioni e clamorosamente smentito le previsioni. Dal che non consegue che una filosofia politica che fallisca nella sua traduzione operativa sia una filosofia sbagliata. No, lo sbaglio sta nel voler applicare l'inapplicabile (...) Per intervenire (con successo) sulla realtà occorre accertare come è» («Antologia di scienza politica», ed. Il Mulino). Meglio non si potrebbe dire. Nel corso del seminario, dico che un altro dei mali che affliggono il Paese è la mania regolamentatrice dello Stato. Oggi, dalla prescrizione a non pagare in contanti certe prestazioni professionali all' imposizione, per chi espone l'Iva, di avere un conto online (è proibito tenere i soldi sotto il materasso?), dal pagamento delle tasse come «dovere civico» alla «lotta all' evasione» come manifestazione dello Stato etico che persegue il Bene. E quant'altro. Anche qui non dico niente di nuovo. Da Bernard Mandeville («La favola delle api») a David Hume, a John Locke, fino a Frederic A. Hayek («Law, Legislation and Liberty») il pensiero liberale dice, invece, che le società aperte e ricche sono la conseguenza di comportamenti spontanei e inconsapevoli degli individui che producono effetti sociali non desiderati, ma positivi. Insomma, nella «società aperta», i vizi privati si trasformano volentieri in pubblici benefici (ad esempio: chi dilapida i propri averi finisce col dare lavoro a tutti quelli che gli forniscono i beni e i servizi che desidera). Un gruppo di liceali mi obietta che il «mio» (?) individualismo liberale porta all' a-socialità, al disordine, all' evasione fiscale (?!) e che lo Stato deve condizionare i miei diritti di proprietà e di iniziativa economica all' «utilità sociale» (obietto: non basterebbero, empiricamente, leggi ordinarie contro la proprietà e l'iniziativa economica che danneggiano il prossimo, dall'inquinamento alla sofisticazione?). A sua volta, un' insegnante mi obietta che chiedersi «come» stiano le cose non ha senso in quanto ciò che conta, e che lei insegna ai suoi allievi (i liceali presenti approvano), è chiedersi il «perché» delle cose. È l'effetto di sessant'anni di cultura ideologica. Che fa spesso della nostra democrazia, nella prassi anche se non in dottrina, la «prosecuzione con altri mezzi dei totalitarismi fascista e comunista del Ventesimo secolo». E il peggio, con questa scuola, deve forse ancora venire.

Solo sull’estrema conclusione ritengo di poter concordare: per questa scuola il peggio deve ancora venire. Ma non per i motivi che pensa Ostellino. Trovo che la semplicità del suo discorso sia disarmante. Questi giornalisti che ad un certo punto della loro vita vogliono assurgere al ruolo di maestri di pensiero sono velleitari, ma anche dannosi all’opinione pubblica, alla quale servono pietanze semplici, appunto quelle che essa può digerire. Quindi spazio ai luoghi comuni, e al pensiero unificato. Nell’intervento di Ostellino troviamo anzitutto un compiaciuto riferimento alla propria audience privilegiata: non certo quel branco di insegnanti ideologizzati plagiatori e di studenti plagiati che si dimostrano del tutto premoderni e incapaci di comprendere le sue tesi, ma esponenti del Rotary Club, crema della società, gente notabile e per censo e per collocazione sociale. A costoro Ostellino somministra un’idea (vogliamo chiamarla concetto? Non si può, Ostellino non ama i concetti) che gli sembra brillante, e che non è sua, ma di uno che egli considera un Maestro, sotto la cui auctoritas si pone, il sommo Giovanni Sartori. Secondo costui la scienza si fonda sul percipere e il perceptum, mentre la filosofia, passatempo per menti oziose e improduttive, sul concipere e il conceptum. E per Ostellino la scuola italiana sarebbe pervasa di filosofia, e questo la renderebbe premoderna e inadatta a formare giovani atti a sostenere le sfide del mercato globale. Sarebbe una scuola malata di filosofia. Ora, non è del tutto chiaro quale sia il concetto del conceptum e del perceptum che maneggia Sartori e in seconda istanza il volonteroso Ostellino, ma certo un concetto sarebbe se pur fosse fasullo. È evidente in Sartori un concetto di scienza che potremo definire ingenuo o primitivamente positivistico, secondo il quale questa fornirebbe il come della realtà oggetto di studio: cioè ce la farebbe conoscere come essa è. Ma a quale realtà pensano i due? Non certo a quella di cui si occupa la regina delle scienze contemporanee, ovvero la fisica, sennò i due dovrebbero problematizzare il perceptum dei quanti o degli elettroni, dovrebbero chiedersi cosa percepisca la teoria della relatività, quale sia la posizione dell’osservatore nell’esperimento, e potrebbero anche sconfinare nell’odiata filosofia. Dovrebbero mettere in rapporto il loro concetto di perceptum alla matematica superiore e alle geometrie non euclidee. De hoc satis: la scienza che i due hanno in mente non è certo questa. Forse pensano all’economia e alla politologia. Forse pensano che queste forme di sapere, che appaiono a molti così problematiche, ci facciano percepire la realtà com’è. Secondo me i due infine pensano semplicemente questo: la gente dovrebbe sapere che c’è una realtà oggettiva conoscibile, cioè il Mercato con le sue bronzee regole, e i sistemi politici che ad esso si rapportano. Basta. tutto il resto è ideologia. Dunque, una scuola che si rispetti dovrebbe limitarsi a preparare le persone ad accettare il come delle cose, senza chiedersi il perché debbano essere così e non cosà. Ma siamo convinti che la scienza non si ponga la domanda del perché? Il perché è legato alla causa. Lo scienziato non si limita all’osservazione del come di un fenomeno, ma si pone la questione del perché si verifichi in determinate circostanze e non in altre. Se si togliesse il perché dalla scienza cadrebbe la scienza. Lo stesso esperimento, la base della scienza moderna, si fonda anche sul perché e non solo sul come. Ma il limitarsi al come senza chiedersi perché ha in realtà una sostanza pre-critica o anti-critica. Si tratta di dogmatismo travestito da atteggiamento scientifico, di assolutizzazione metafisica dell’esistente camuffata da apertura al progresso. Le società tradizionali basate sul rito sono società del come e non del perché.

Ma nel pezzo di Ostellino il senso del tutto è un attacco alla scuola italiana e ai suoi insegnanti: degli inutili o dannosi parassiti che indottrinano i giovani, riempiendo le loro teste di idee sballate, di concetti, abituandoli a non percepire la realtà ma a concettualizzarla, chiedendosi vanamente il perché delle cose.

Certo, il principio di causa è un’astrazione, un concetto. La scuola dunque non dovrebbe insegnarlo, né insegnare ai giovani ad applicarlo nell’analisi della realtà. Dunque, leggendo il pezzo Ostellino-Sartori io dovrei limitarmi a percepirlo, senza chiedermi quali siano i concetti da cui muove e perché Ostellino l’abbia scritto. Siccome però sono un vecchio docente laureato in filosofia e che tende a concettualizzare e ad insegnare ai giovani a maneggiare i concepta in modo critico e anti-dogmatico, mi pongo la domanda del perché Ostellino abbia sferrato questo attacco alla scuola italiana, e se sia un caso che questo attacco compaia sul Corriere proprio ora, nel momento in cui si combatte intorno al carrozzone della legge finanziaria. Forse, oso pensare, non è un caso che Ichino attacchi gli insegnanti fannulloni e Ostellino l’orientamento generale della scuola italiana, in forma tanto rozza e demagogica quanto concettualmente debole (per principio). Una buona parte della società non vuole una scuola che produca cultura, una scuola che attui il circolo virtuoso dei come e dei perché, ma una mera scuola del come, che produca docili consumatori. Personalmente, io sono tutt’altro che un nemico della consumer society e del Mercato, ma so che un mercato evoluto ha bisogno di produttori e consumatori aperti mentalmente e critici, che sappiano pensare in termini e di come e di perché, esattamente come la democrazia di cui si dice che sia il compagno. A meno che non si preferisca il modello cinese.