Lettera aperta ai docenti della scuola italiana.
Marino Badiale*, da
DocentINclasse, 22/11/2006
I. Un suicidio di massa.
Nei libri sugli animali che leggevamo da ragazzi
si raccontava la triste storia dei lemming. Questi piccoli roditori
delle tundre nordiche, simili a criceti, a intervalli di tre o quattro
anni, spinti dalla scarsità di cibo, iniziano a migrare, e queste
migrazioni si concludono in modo drammatico con i poveri lemming che
si gettano in mare dalle scogliere, realizzando un autentico suicido
di massa.
Diventati adulti, abbiamo scoperto che questa storia, così
impressionante e capace di colpire l’immaginazione di un ragazzo, è
una leggenda, diffusa nel mondo, pare, da un documentario della Disney.
Pur sapendola falsa, vogliamo però usare questa immagine del suicidio
di massa dei lemming per iniziare a parlare della situazione dei
docenti della scuola italiana. Enunciamo subito la nostra tesi
fondamentale: la realtà della scuola italiana è caratterizzata da un
suicidio di massa degli insegnanti. L’immagine dei professori-lemming
descrive bene, a nostro avviso, alcuni aspetti decisivi delle vicende
della scuola in questi ultimi anni. Le caratteristiche di tale
suicidio di massa possono essere riassunte nei tre punti seguenti:
1. Si è avuta negli ultimi anni una serie di interventi legislativi e
amministrativi sulla scuola che hanno alterato in profondità i
caratteri essenziali della scuola stessa. Questi interventi possono
essere riassunti nella formula “riforma Berlinguer-Moratti”.
2. Questa riforma ha come conseguenza la dequalificazione del lavoro
del docente e la degradazione culturale e sociale (con conseguente
impossibilità di miglioramento economico) dell’intera categoria dei
docenti della scuola italiana.
3. I docenti hanno nella sostanza accettato tutto questo, spesso
collaborando alla propria degradazione, più spesso lamentandosi, ma
senza mai ribellarsi seriamente.
Perché la riforma Berlinguer-Moratti ha come conseguenza il degrado
culturale e sociale dei docenti? Perché uno dei suoi contenuti
fondamentali è la svalutazione dell’insegnamento dei contenuti
disciplinari, di quelle cioè che nel linguaggio comune sono le
“materie” tradizionalmente insegnate a scuola. Questo fatto non è di
immediata percezione, in primo luogo perché non viene enunciato
esplicitamente nei testi legislativi e amministrativi che hanno
articolato la riforma Berlinguer-Moratti, in secondo luogo perché si
tratta di una tendenza di fondo che non è ancora arrivata alla sua
compiuta realizzazione.
La svalutazione dell’insegnamento delle “materie” nella scuola
italiana
contemporanea rappresenta però la ratio implicita di una serie di
misure che possono essere comprese solo alla luce di tale scelta di
fondo. Gli esempi potrebbero essere numerosi, ne facciamo solo alcuni
per mantenere la lunghezza di questa lettera entro limiti ragionevoli.
Un primo aspetto è l’incentivazione di una miriade di attività
parallele all’insegnamento disciplinare (fra cui i cosiddetti
“progetti”, ma non si tratta solo di questi), attività che implicano
la continua interruzione dell’orario curriculare, cioè dell’orario
dedicato all’insegnamento disciplinare stesso. Un altro aspetto è
l’introduzione di materie nuove che si aggiungono alle materie
tradizionali implicando una diminuzione dell’orario per tutte le
materie. A ciò si possono aggiungere gli spostamenti di docenti
dall’insegnamento di materie per cui hanno una preparazione specifica
all’insegnamento di altre materie, cosiddette “affini”, spostamenti
motivati esclusivamente da esigenze di organizzazione scolastica.
Analogo a questo fenomeno è quello delle abilitazioni con concorsi
speciali che prescindono parzialmente o totalmente dalla preparazione
specifica. Già da questi semplici esempi si capisce come la ratio che
li unifica e li rende comprensibili sia quella della svalutazione
dell’insegnamento delle “materie” tradizionali: un insegnamento a cui
viene dedicato sempre meno tempo e rispetto quale non si ritiene
importante che venga svolto da docenti preparati.
Poniamoci adesso il problema di capire cosa significhi tutto questo
rispetto alla scuola e rispetto alla vita di chi nella scuola ci
lavora. Significa, in sostanza, che la scuola di Berlinguer-Moratti
non è più, a parte alcune sue zone residuali, una scuola. E’ diventata
un’istituzione completamente diversa, che della scuola conserva, con
limitate eccezioni, solo l’immagine esteriore. A questa nostra
affermazione qualcuno potrebbe obiettare che la scuola non ha solo la
funzione di “insegnare delle materie”, ma ha altre funzioni, anche più
importanti, di tipo socio-educativo: come per esempio far crescere la
capacità relazionale dei giovani, aiutare il loro inserimento nella
società, sviluppare in essi il rispetto per le culture e i popoli del
mondo, e la lista potrebbe ovviamente continuare. Se questo è vero, il
permanere di tali funzioni e scopi socio-educativi conserva un
significato e un ruolo profondo alla scuola, anche se diminuisce
l’attenzione alle tradizionali “materie”.
Questa obiezione, in apparenza ragionevole, è in realtà un vuoto
sofisma, che denota una profonda incomprensione di cosa sia la scuola.
Per capire quanto affermiamo, basta riflettere sull’esempio seguente.
Tutti siamo d’accordo sull’importanza dell’attività sportiva per i
giovani. Una giusta dose di attività sportiva è necessaria allo
sviluppo equilibrato del corpo, ed ha anche importanti aspetti
educativi: abitua alla corretta elaborazione di emozioni come
l’aggressività e la competitività, al rispetto delle regole del gioco
e dell’avversario, alla collaborazione con i propri compagni nel caso
degli sport di squadra. E’ per tutti questi motivi che molti genitori
fanno fare ai propri figli le più diverse attività sportive.
Immaginiamo però che quando portiamo nostro figlio nella tal palestra
per iscriverlo ad una qualche attività sportiva ci venga fatto dai
responsabili il seguente discorso: poiché lo sport ha importanti
funzioni nello sviluppo fisico ed emotivo dei giovani, ma d’altra
parte fare sport è faticoso, abbiamo pensato di perseguire le
importanti funzioni educative dello sport tenendo i ragazzi fermi e
seduti. Cosa penseremmo di una simile proposta? Penseremmo che chi
ragiona in questo modo o sta scherzando, o è un pazzo, o non sa di
cosa sta parlando. E sicuramente porteremmo nostro figlio in un’altra
palestra. Ma sostenere che le finalità socio-educative della scuola
possono essere perseguite trascurando l’insegnamento disciplinare è
un’assurdità dello stesso tipo. Infatti l’essenza della scuola, così
come si è formata nella nostra storia, sta in questo: la scuola è
quella particolare “agenzia educativa” nella quale le finalità
educative sono perseguite attraverso l’insegnamento di contenuti
disciplinari. Ovvero, la scuola esiste perché (e finché) si ritiene
che alcune particolari “materie” abbiano una pregnanza culturale e
umana tale che, attraverso il loro insegnamento, sia possibile
perseguire quei fini sociali ed educativi di cui si diceva sopra.
La scuola esiste perché si ritiene, o si è ritenuto fino a tempi
recenti, che insegnare letteratura, matematica, filosofia, fisica
eccetera rappresenti un modo, il modo specifico appunto della scuola,
di educare i giovani.
E’ questo lo specifico della scuola. E’ questo che distingue la scuola
da altre “agenzie educative” come la famiglia, il gruppo di amici, i
boy scouts o quant’altro.
Ma se tutto questo è vero, cosa resta della scuola, una volta che essa
sia privata del suo elemento specifico e caratterizzante, cioè
l’educazione dei giovani attraverso l’insegnamento di specifiche
materie? La risposta è ovvia: non resta nulla. La scuola viene di
fatto abolita, e il tempo della scuola diventa un enorme tempo vuoto
che bisogna riempire con le più diverse e strane attività. E cosa
diventano i docenti, dentro a questa scuola che non è più una scuola?
Qual è il loro ruolo, una volta abolito di fatto il loro ruolo
specifico dell’insegnamento delle “materie”? Nella squola di
Berlinguer-Moratti i docenti sono ridotti ad essere dei badanti o dei
baby-sitter. La lenta cacciata dei docenti dal ceto medio alle zone
più basse della stratificazione sociale è una conseguenza ovvia di
questa loro dequalificazione professionale.
Si potrebbe obiettare che la professionalità dei docenti (e quindi il
loro livello sociale ed economico) viene salvata insistendo sulle loro
competenze pedagogico-didattiche, invece che su quelle disciplinari. I
docenti cioè sarebbero quelle persone che sanno come si insegna, e
tali persone sarebbero importanti anche in una scuola nella quale si
dà meno importanza a cosa si insegni. Questa obiezione è analoga a
quella che abbiamo poco fa confutato.
In sostanza, dire che non ha importanza cosa si insegna perché
l’importante è che venga insegnato bene, equivale a dire che i
contenuti dell’insegnamento non hanno più nessuna importanza. Ma
questo ha come conseguenza la scelta dei contenuti più facili e meno
impegnativi possibili: se tutto è uguale a tutto, perché docenti e
studenti devono sobbarcarsi la fatica di leggere Manzoni, quando è
tanto più gradevole leggersi Camilleri? Il punto è che, una volta
impostate le cose in questo modo, si è su un piano inclinato nel quale
non ci si può fermare. Perché leggere Camilleri a scuola quando
ascoltare le canzoni di De André è ancora più gradevole e più facile?
Si vede facilmente che, lungo questo piano inclinato, si torna alla
degradazione professionale dei docenti. Infatti, di quale mai
competenza pedagogica c’è bisogno per tenere i ragazzi in classe a
fare cose piacevoli e divertenti come ascoltare canzoni ? E’ chiaro
che, in questo contesto, la figura del docente si riduce, come già
abbiamo detto, a quella di una badante o di una baby-sitter.
Possiamo allora concludere che nella riforma Berlinguer-Moratti è
implicita una sostanziale degradazione della figura del docente. Tale
degradazione determina il degrado economico e sociale dell’intero ceto
dei docenti, il loro ridursi a poveracci degni solo, a seconda delle
inclinazioni, di compassione o disprezzo.
Tale degradazione ha, come ulteriore conseguenza, l’abbassamento del
livello culturale e della maturità intellettuale dei giovani che
escono dalla scuola italiana. E’ un fenomeno che chi insegna
all’Università ha ben chiaro, e che genera un forte pessimismo sul
futuro del paese.
Aggiungiamo infine che, a nostro avviso, il degrado della scuola
arriverà presto a mettere in pericolo la stessa sicurezza fisica dei
docenti: è chiaro infatti che una scuola intesa come grande parcheggio
per ragazzi non ha più alcuna barriera che la protegga dalla
degradazione del sociale. Gli episodi di violenza nelle scuole, di cui
leggiamo sui giornali, sono anch’essi collegati a quella negazione del
ruolo specifico della scuola, che è l’anima della riforma
Berlinguer-Moratti, e sono destinati ad aumentare di numero e di
gravità.
II. Combattere il degrado.
E’ possibile arrestare questo degrado? E’ nostra
convinzione che sia possibile, ma estremamente difficile. Occorre
infatti rendersi conto che un fenomeno di tale rilevanza storica come
l’annientamento della scuola italiana non può essere l’effetto di una
causa risibile come la miseria intellettuale e politica di personaggi
del calibro di Luigi Berlinguer o della signora Moratti. Questi
personaggi, assieme al resto del miserabile ceto politico e
giornalistico di cui essi sono perfetti rappresentanti, possono agire
indisturbati solo perché, evidentemente, ciò che fanno esprime alcune
tendenze profonde del nostro tempo. Occorre cioè rendersi conto che la
negazione del ruolo del pensiero e della cultura è oggi una tendenza
spontanea e fortissima, e che lottare per difendere la scuola come
luogo in cui si educano i giovani attraverso la loro introduzione nel
mondo del pensiero e della cultura, significa lottare contro aspetti
strutturali di questa fase storica. Significa cioè mettersi
volontariamente e lucidamente in una posizione “conservatrice” e
“anacronistica”. E’ questa lucidità che sembra mancare all’insieme dei
docenti italiani, ed è questa mancanza di lucidità a rendere
particolarmente difficile la lotta contro il degrado.
Per combattere contro l’annientamento della scuola italiana, che si
traduce nel degrado della figura del docente, occorre naturalmente
combattere l’aspetto centrale di tale annientamento, aspetto che
abbiamo individuato nella prima parte. La negazione della scuola è
conseguenza logica della negazione della centralità delle tradizionali
“materie di insegnamento”: l’italiano, la matematica, la filosofia, la
fisica, la storia, la geografia e poche altre. Per combattere il
degrado occorre allora rimettere al centro proprio le tradizionali
“materie”: occorre avere come punto fermo e inderogabile l’assioma che
la scuola è, essenzialmente, il luogo dove si insegnano italiano,
matematica, filosofia, fisica, storia, geografia e poche altre materie
fondamentali. Con questo intendiamo dire l’insegnamento delle materie
tradizionali deve costituire l’asse culturale di riferimento della
scuola italiana.
Questo ovviamente non esclude che nelle varie scuole si insegnino
altre cose, a seconda del tipo di istituto. Ma deve essere chiaro che
esiste un fondamento culturale omogeneo per tutta la scuola italiana,
e che esso è rappresentato da poche materie fondamentali. Ogni
discorso sulla scuola deve partire da qui. Da qui si può cominciare a
parlare delle finalità socio-educative della scuola. E per dire
qualcosa anche su questo tema, cominciamo subito a dedurre, dalla
centralità dell’insegnamento delle “materie”, due fondamentali valori
educativi della scuola. La scuola, grazie all’insegnamento delle
“materie”, fornisce i filtri culturali per dipanare l’immensa massa di
“informazioni” alle quali i giovani, come tutti, sono esposti. Inoltre
insegna il valore del duro lavoro dello studio.
Per quanto riguarda il primo punto, è evidente che oggi non si tratta
di offrire ai giovani stimoli e informazioni: il nostro mondo è un
mondo di persone iperstimolate sul piano mediatico e spettacolare e
rimpinzate di informazioni. Un mondo di esposizione continua alla
televisione, a cui si aggiunge lo spazio immenso di internet. In
questa situazione il punto cruciale, ciò che distingue gli individui
attivi dai recettori passivi e manipolati, è la capacità di filtrare
le informazioni, di selezionare, di rifiutarsi alla bulimia
informativa e di scegliere le informazioni importanti e significative.
Ma è appunto la lezione di organizzazione concettuale fornita da uno
studio serio e approfondito di materie come la lingua italiana, la
storia, una disciplina scientifica, a fornire questa capacità di
selezione critica delle informazioni. Allo stesso modo, il fatto di
capire che solo attraverso un duro e serio lavoro di studio si può
arrivare a risultati di questo tipo, o a qualsiasi tipo di risultato,
è un altro fondamentale valore educativo dell’insegnamento
disciplinare.
Queste osservazioni rappresentano però solo il punto di partenza. Il
passaggio successivo è la riacquisizione da parte dei docenti
dell’autorevolezza perduta. Il docente deve tornare ad essere una
figura che ha autorità e stima sociale, e ce l’ha appunto in quanto è
colui o colei che insegna quelle particolari materie. Questo è
naturalmente il passaggio più difficile. Come dicevamo sopra,
l’annientamento della scuola italiana è un fatto storico di vasta
portata, possibile solo grazie al fatto che la negazione della cultura
e del pensiero sono diventati senso comune. E’ dunque difficile
riacquistare stima sociale in una società che nega stima proprio alla
cultura e al pensiero, e quindi alla scuola e a chi ci lavora. Ma
questa difficoltà, già grave di per sé, diventa insormontabile se i
docenti introiettano la mancanza di stima che sentono nell’intero
ambiente sociale. Vale a dire che il primo passo i docenti devono
farlo su di sé.
Il primo passo per combattere il degrado della scuola e dei docenti è
la riconquista dell’autostima da parte dei docenti stessi. E poiché il
docente, come s’è detto, è colui o colei che insegna quelle ”materie”,
occorre che i docenti siano, essi per primi, convinti della centralità
e dell’importanza di quello che fanno, vale a dire di quello che
insegnano. Occorre che i docenti siano, essi per primi, convinti che
insegnare Dante e Galileo, Platone e Manzoni, Newton e Petrarca sia un
compito fondamentale e centrale; che un mondo in cui la gente impara a
scuola la tradizione culturale cui quei nomi, e gli altri simili,
fanno riferimento, è un mondo migliore di quello in cui questo non
succede. Che insegnare Leopardi e Shakespeare significa offrire ai
ragazzi una opportunità inestimabile: l’opportunità di costruirsi
un’identità personale un po’ più sensata, un po’ più umana di quella
che avrebbero senza Leopardi o Shakespeare.
Ma non basta che i docenti credano questo. Devono saperlo. E sapere è
più di credere. Il docente sa che quanto abbiamo appena detto è vero
solo se ne ha provato su se stesso la verità. Vale a dire, solo se ha
nel proprio vissuto la gioia, l’emozione, la soddisfazione profonda di
capire un teorema o una poesia, di comprendere realmente una dinamica
storica o una cultura diversa dalla propria. In definitiva, i docenti
possono recuperare stima e autorevolezza solo se tornano ad essere
intellettuali veri, che credono nel valore della cultura che
trasmettono perché quel valore lo conoscono per esperienza personale e
pratica quotidiana.
E’ chiaro che su questo punto ci deve essere una profonda autocritica
dei docenti italiani. Essi per troppi anni hanno accettato un patto
scellerato che consisteva nello scambio fra bassi salari e scarso
impegno personale, anche sul piano culturale. Questo deve finire. Non
che si possa pretendere dall’oggi al domani un radicale cambiamento
delle persone. Ma si può e si deve pretendere un radicale cambiamento
dei valori. Deve essere chiaro che la scuola italiana può essere
ricostruita dalla macerie, e il degrado dei docenti può essere
arrestato, solo se si assume come norma di cosa sia un docente il
modello che abbiamo descritto. Solo con questa radicale assunzione di
responsabilità, con questa severa autocritica e con questa scelta di
un modello normativo di rigore culturale, i docenti italiani potranno
finamente risollevare la testa.
III. Su la testa!
A partire da quanto fin qui detto si può provare
a rispondere a molte affermazioni superficiali e scorrette sulla
scuola, da tempo depositate nel senso comune.
Dice il senso comune: la scuola trasmette contenuti vecchi, il mondo è
cambiato, occorre praticare attività nuove, come computer,
multimedialità, viaggi di istruzione.
No. Tutte queste cose fanno parte della realtà nella quale i ragazzi
sono immersi indipendentemente dalla scuola. Sono cose che essi fanno
in ogni caso. A spippolare sul computer imparano comunque, in un modo
o nell’altro, i viaggi li fanno con i loro genitori o con gli amici,
in internet ci vanno comunque.
Il compito della scuola non è far fare queste cose, ma fornire gli
strumenti concettuali con i quali capire quello che si fa e quello che
succede nel mondo.
La comprensione delle dinamiche storiche e
culturali con le quali si è arrivati ai fatti di cui parlano i
telegiornali è cosa che può dare solo la scuola, e senza la quale è
inutile seguire i telegiornali. Leggere Tucidide e Machiavelli,
studiare la storia della rivoluzione industriale o del Medio Oriente
aiuta a capire la realtà contemporanea più di ore passate in internet.
Allo stesso modo, le classiche “gite scolastiche” sono ormai diventate
una pura perdita di tempo e vanno abolite appena possibile.
Dice il senso comune: la scuola deve preparare al mercato del lavoro;
data la difficoltà odierna del mercato del lavoro, è questo uno dei
suoi compiti principali.
No. Quello della disoccupazione giovanile (e non solo) è un problema
drammatico. Appunto per questo deve essere affrontato da chi ha gli
strumenti per affrontarlo, cioè il mondo della politica, e sul piano
che gli è proprio, cioè quello dell’organizzazione sociale
dell’economia. Scaricare tale problema sulla scuola rappresenta una
truffa. La scuola non ha la possibilità di risolvere il problema della
disoccupazione giovanile. Se si porta un giovane da un medico perché è
ammalato e il medico lo restituisce sano, il medico ha svolto il suo
compito, non gli si chiede anche di trovare un posto di lavoro al
giovane. La scuola, se funziona, fornisce alla società giovani educati
al pensiero, alla cultura, al ragionamento. E’ questo il suo
contributo al progresso civile.
Dice il senso comune: i ragazzi vanno stimolati, per esempio
portandoli a mostre e dibattiti, fiere del libro e festival della
scienza, invitando persone esterne alla scuola a fare conferenze.
No. Come dicevamo sopra, oggi la condizione normale delle persone è
quella di una iperstimolazione mediatica, continua e incessante. La
scuola non deve contribuire a questa bulimia, ma deve fornire filtri
culturali. Inoltre, occorre rendersi conto che la cultura delle fiere
del libro, dei festival della scienza e delle pagine culturali dei
giornali, è una cultura della chiacchiera pretenziosa, della
superficialità, della moda cultural-spettacolare priva di spessore. E’
una cultura diametralmente opposta alla cultura dello studio e del
pensiero che la scuola deve trasmettere. La scuola, lungi dal portare
gli studenti a queste iniziative, deve insegnare loro a non andarci, o
ad andarci il meno possibile. Deve far loro capire che leggere un buon
libro è sempre la cosa migliore da fare, se si tiene alla cultura.
Quanto agli esperti invitati a tenere conferenze nella scuola, se sono
persone serie e non chiacchieroni alla moda possono essere utili. Ma
queste iniziative, se svolte nell’orario curriculare, rappresentano in
ogni caso una perdita di tempo prezioso, rispetto al compito
principale della scuola, che è di stare in classe a insegnare e
imparare, e vanno quindi ridotte al minimo.
Dice il senso comune: in un mondo multietnico la scuola deve aprirsi
alle altre culture e diventare una scuola multiculturale.
No. Quello del rapporto con altre culture e dell’integrazione sociale,
economica e culturale delle varie etnie presenti nel nostro paese
rappresenta un problema serio e importante, che viene impropriamente e
truffaldinamente accollato alla scuola. Chiunque sappia cosa vuol dire
educare un giovane a comprendere i valori profondi della nostra
tradizione culturale sa che si tratta di un’impresa che richiede
tempo, impegno, serietà. Non c’è spazio, nel tempo della scuola, per
fare un lavoro di altrettanto impegno nei confronti di un’altra
cultura. E quale poi? Dato che nel nostro paese convivono le più
diverse etnie, quali altre culture dovrebbero entrare nella scuola
italiana? La tradizione culturale araba, quella cinese, quella del
cristianesimo ortodosso, quella iberica e latino-americana, le varie
culture africane? Chiunque abbia un’idea minimamente seria di cosa
significhino queste tradizioni, sa che è assurdo pensare ad una scuola
nella quale si parla un pochino di Cina e un pochino di Maometto, un
pochino di Africa e un pochino di Tolstoi. Niente potrebbe essere
fatto con serietà, con profondità, in una simile scuola.
Ma chi fa simili proposte non ha la minima idea di cosa siano serietà
e profondità, di cosa siano cultura e pensiero, e immagina la scuola
come un supermarket con gli appositi scaffali per le spezie esotiche.
Del resto, basta pensare nei termini della vita quotidiana per capire
l’assurdità di queste proposte. Se viene ospite a casa tua un amico
cinese, gli prepari forse una cena di cucina cinese? Ovviamente no,
gli prepari una cena di cucina italiana cercando di tirare fuori il
meglio che sei capace di fare. Rifiutando l’idea della scuola
multiculturale, che è la scuola non delle molte culture ma della
negazione di ogni idea di cultura, noi ci regoliamo secondo le leggi
universali dell’ospitalità, offrendo in dono a coloro che sono
arrivati da lontano ciò che di più bello abbiamo, ciò che ci è più
caro: Dante e Leopardi, Platone e Galileo, e così via. Ed è questo
l’unico modo in cui la scuola può lavorare per la pacifica convivenza
fra le culture. Sforzandosi di far vivere agli studenti una esperienza
culturale seria e vera, quella dell’incontro con la nostra tradizione,
insegniamo contemporaneamente il rispetto per la cultura universale.
Solo chi ha vissuto l’emozione di un incontro culturale profondo e
autentico, sia esso con Euclide o con Ariosto, con Pascal o con
Maxwell, è in grado di intuire lo spessore umano di un’altra
tradizione culturale, e quindi di rispettare realmente Confucio e
Maometto. Chi riduce la cultura a chiacchiericcio generico su tutto e
tutti, non rispetta in realtà nessuna tradizione culturale.
Dice il senso comune: la scuola deve cambiare perché ci sono molti
cattivi professori che allontanano gli studenti dalle loro materie. Ci
sono tanti casi di persone che hanno avuto un cattivo docente di
matematica (filosofia letteratura italiana ecc) e quindi sono sempre
rimaste lontane dalla matematica (dalla filosofia dalla letteratura
italiana ecc).
No. E’ ovvio che cattivi docenti ce ne sono sempre stati e sempre ce
ne saranno. Così come ci sono sempre stati e sempre ci saranno cattivi
medici, cattivi avvocati, cattivi cuochi. Ma non per questo la scuola
deve cambiare la sua natura profonda, che è quella, ripetiamolo
un’altra volta, di educare attraverso l’insegnamento disciplinare. Il
problema dei cattivi insegnanti va affrontato rendendo razionale, come
non è da tempo, il sistema del reclutamento. Altrimenti lo stesso
ragionamento porterebbe a dire che, poiché negli ospedali italiani ci
sono anche cattivi medici, allora gli ospedali non devono più
preoccuparsi di curare i malati. Oppure a dire che, poiché nei
tribunali italiani ci sono anche cattivi magistrati, allora la
magistratura non deve più preoccuparsi di applicare le leggi.
IV Lotta dura.
Ma la ripresa di prestigio e autorevolezza del
corpo docente deve passare attraverso un deciso aumento degli
stipendi. Non è possibile svolgere seriamente un lavoro intellettuale
se si è costantemente con l’acqua alla gola sul piano della vita
materiale. Ed è esattamente quello che succede con le attuali
retribuzioni. La richiesta minimale deve essere quella di raddoppiare
gli stipendi dell’intero corpo docente. Questo deciso innalzamento del
livello economico deve essere sganciato da ogni considerazione di
produttività o di competitività, categorie che non hanno nulla a che
fare col lavoro intellettuale ed educativo della scuola. Il lavoro del
docente non può essere misurato in termini quantitativi, e la nozione
di produttività non può essere ad esso applicata. Quanto alla
competitività, il docente non deve competere con nessuno, anzi, deve
mettere il più possibile in comune con i colleghi il proprio sapere.
Ma dove trovare le risorse per questi aumenti? Occorre, evidentemente,
rinunciare ad altre cose. In una situazione di debolezza economica
come quella italiana, occorre capire che ci sono lussi che non ci
possiamo più permettere. La scuola non è un lusso. Ma la stragrande
maggioranza delle iniziative di “spettacolo culturale” le cui
pubblicità ci bombardano sono lussi: festival e mostre, happenings e
dibattiti. E non si tratta solo del fatto che costano. Se riflettiamo
sul fatto che oggi appare dominante questa cultura ridotta a
spettacolo, a chiacchiera superficiale, a “star system” culturale, e
su come tale cultura-spettacolo si opponga diametralmente alla cultura
del libro, della riflessione e del pensiero, di cui è depositaria la
scuola, arriviamo ad una conclusione necessaria: i docenti hanno tutto
l’interesse a chiedere l’abolizione di mostre e spettacoli, fiere del
libro e festival della scienza. Per formulare una proposta concreta, i
docenti dovrebbero chiedere la soppressione degli assessorati alla
cultura di comuni, province e regioni, la fine di ogni contributo
finanziario pubblico alla cultura-spettacolo, e il versamento dei
soldi così risparmiati sui loro stipendi. Meno chiacchiere futili,
meno spettacolo, più serietà, più stipendi per gli insegnanti. Tutti
vantaggi, nessuno svantaggio, costo zero per lo Stato.
Infine, i docenti delle scuole dovrebbero lottare duramente per
chiedere l’abolizione di pedagogia e didattica dalle università
italiane. Pedagogisti e didatti sono i principali ispiratori della
riforma Berlinguer-Moratti. Si tratta di signori che, pagati il doppio
o il triplo di un docente di scuola, invece di starsene nel loro
cantuccio a raccontarsi le loro sciocchezzuole, hanno pensato bene di
invadere la scuola italiana e la vita di chi ci lavora. L’esito di
questa invasione è talmente devastante da imporre una reazione
radicale. Siamo però così convinti del grande valore di civiltà del
“posto fisso” che non chiediamo il licenziamento neppure di
pedagogisti e didatti. Per abolire pedagogia e didattica basta
semplicemente che ad ogni pensionamento di un professore o ricercatore
universitari di una di queste materie, il suo stipendio venga
riassorbito dall’Università e destinato ad altre discipline.
La lotta contro il degrado della scuola non sarà facile. E’ solo
avendo le idee chiare sulla situazione attuale e sulle sue cause che
tale lotta potrà iniziare. La nostra speranza è che questo intervento
possa almeno contribuire a fare chiarezza.
Marino Badiale
Docente di Analisi Matematica
Università di Torino.
Di prossima pubblicazione sulla rivista “Eretica”.