Emergenza educazione in Italia.
Pasquale Almirante, il
Manifesto del 17/3/2006
“Mi si chiama professore, perfino dottore, ma da
più di dieci anni meno pel naso i miei studenti a destra e a sinistra,
per dritto e per traverso. Inoltre non possiedo nulla né denaro né
potere né onori né lustro. Neanche un cane vorrebbe vivere come io
vivo.” A sproloquiare, poco prima di concludere il patto con
Mefistofele, è il vecchio dottor Faust, nell’immaginario artistico del
poeta tedesco Goethe che scrisse l’opera ai primi dell’800, ma nelle
cui parole si possono forse riconoscere tanti docenti, sia sul mancato
possesso di denaro e di lustro, la vita da cani insomma, e sia, ma
forse soprattutto, in quel rimorso profondo di menare per il naso gli
studenti che alla loro istruzione zoppicante e incompleta, come Faust
dice, si affidano.
L’eccesso di sapienza genera talvolta la convinzione della sua
incompiutezza e il rimorso di non poter trasmettere agli altri quel
poco che si è capito, contrariamente alla presunzione di chi crede di
tutto sapere, come il don Ferrante manzoniano che, possedendo qualche
dozzina di libri, era sicuro dell’origine astrale della peste.
L’angosciante interrogativo di Faust serve però a mettere in luce la
delicatezza della funzione docente e in modo particolare il dissidio
che separa quanto a scuola viene fatto, o viene tentato di fare, e
quanto invece vivono ogni giorno i ragazzi, sia casa e sia nel mondo
esterno. E serve pure a chiarire meglio il fine ultimo che
l’appello-manifesto sulla “Emergenza educazione in Italia”, lanciato
da eminenti personalità della cultura, della politica e del
giornalismo, può avere.
Nell’appello, sottoscritto ormai da più di 500 illustrissimi
intellettuali e politici, si dice fra l’altro: “È diventato normale
pensare che tutto è uguale, che nulla in fondo ha valore se non i
soldi, il potere e la posizione sociale”, che sono proprio quei beni
non posseduti da Faust, nonostante i suoi larghissimi studi e
nonostante avesse indagato perfino la teologia e pure la negromanzia,
e nonostante avesse la venerazione dei suoi studenti. Perché allora il
punto base dell’educazione dei giovani non sono le parole per spronare
a fare meglio o la trasmissione di contenuti ma l’esempio, i
comportamenti e in modo particolare quelli che vengono dai modelli cui
i giovani si ispirano.
Se gli esempi veicolati da certi personaggi dello spettacolo sono
quantomeno in controtendenza allo spirito dell’appello ma che per
certi versi si possono pure giustificare, colpiscono invece le parole
e gli atti di chi ha altre responsabilità, sia di governo, e sia di
gestione di poteri visibili a tutti. La rissa, l’ammiccamento alla
trasgressione, la ricerca della raccomandazione per lavorare e per
essere anche promossi fanno ormai parte del nostro costume, anche
quello più banalmente vissuto. Come fa parte ormai della assuefatta
norma il non vergognarsi più, anzi il gloriarsi di avere amici potenti
e potenti padrini: politici, mafiosi, malavitosi.
Soldi, potere, posizione sociale sono appannaggio per lo più di certe
entità, come li chiamava Buscetta, che possono tutto dal momento in
cui le regole e la legge sono invocate solo dal debole e dal
soccombente, come il più fragilino della classe che cerca nel docente
protezione e rassicurazione.
La intellighenzia del “68 sottoscriveva appelli affinché la cultura,
per riscattarsi dalla arroganza dei potenti, dalla malavita, dallo
sfruttamento potesse arrivare a tutti gli strati sociali. A distanza
di quasi 40 anni altri manifesti dimostrano che la scolarizzazione di
massa è servita poco al proliferare di nuove insidie che la scuola può
contribuire a sconfiggere solo se chi si espone è saldo come roccia.
Faust salvò la sua anima dal diavolo mettendo a frutto per gli altri
la sua vasta conoscenza; che siano dunque questi firmatari a mettere a
disposizione dei giovani, attraverso azioni e comportamenti visibili e
conformi allo spirito dell’appello, la loro sapienza perché potrebbe
sempre nascere il dubbio, socratico, che una firma su un manifesto non
si rifiuta a nessuno.