Interviste.
La Moratti sospende il progetto per il rientro dall'estero di studiosi e ricercatori.
Quale futuro ora per la ricerca italiana?
Ne parliamo con Augusto Palombini, segretario Adi

Quei cervelli che l'Italia non rivuole.

 Manuela Bianchi da Aprile On Line.info dell'11/5/2006

 

C'è un passaggio della Finanziaria recentemente approvata che è passato del tutto inosservato. Recita più o meno così: “Per il 2006 – è scritto all'articolo 5 del decreto ministeriale 207 del 28 marzo – le disposizioni di cui al decreto ministeriale 26 gennaio 2001 numero 13 e successive modificazioni, sono differite al 2007 ed in tale anno verranno valutate anche le proposte pervenute entro il 31 gennaio 2006”. Firmato: Letizia Moratti. Dal burocratese all'italiano: nel 2001, l'allora ministro Ortensio Zecchino aveva previsto un fondo per finanziare i ricercatori che operavano all'estero e volevano trasferirsi nel nostro Paese. Al progetto hanno aderito, in cinque anni, 466 tra ricercatori e professori, di cui la metà italiani, che sono così rientrati in patria e l'altra metà stranieri, soprattutto americani, inglesi e francesi. Tutto ciò, fino al 28 marzo 2006, perché, attualmente, il governo non dispone più dei fondi necessari a sponsorizzare il rientro dei ricercatori. Cosa è successo? Ne parliamo con Augusto Palombini, segretario dell'Adi (Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani) e autore del libro “Cervelli in fuga”.


Come funzionava il programma previsto nel 2001 dall’allora ministro Zecchino, il cosiddetto “Progetto per il rientro dei cervelli”?

Alcuni studiosi che avevano dimostrato particolari capacità nell’ambito della ricerca all’estero presso istituti stranieri, quindi non necessariamente italiani all’estero ma anche studiosi stranieri, potevano, tramite un accordo con i dipartimenti delle università italiane, avere una via di impiego privilegiata, quindi non tramite i concorsi ordinari bensì attraverso un apposito provvedimento da parte dello Stato per trascorrere un periodo in Italia, generalmente di tre anni, con un contratto di docenza, come una sorta di professori a contratto, che consentiva di avere un impiego presso un’università italiana per un periodo limitato.


Il progetto poteva anche equivalere ad un periodo di sei mesi?

Sì, poteva anche essere di sei mesi o addirittura più breve, a seconda delle situazioni. Va detto che questo sistema non è mai stato un palliativo ad una situazione generale più problematica. L’iniziativa del rientro dei cervelli venne successivamente alla discussione che si aprì anche in seguito alla pubblicazione del nostro libro “Cervelli in fuga”. In realtà, noi volevamo segnalare la necessità di riforme strutturali nell’Università italiana, poiché il problema non è semplicemente far rientrare chi è fuori, quanto creare condizioni di un sistema migliore che non costringa le persone ad andar via e che stimoli invece altri a venire. Tanto più che un grande studioso impiegato all’estero difficilmente si mette in discussione per avere un contratto di 3 anni alle condizioni in cui si fa ricerca in Italia. Tuttavia, questo strumento era comunque qualcosa. Sappiamo bene che nelle università italiane è difficile che si facciano dei concorsi in cui si prendono persone completamente sconosciute. Il progetto Zecchino rompeva questo meccanismo, in quanto consentiva una circolazione, un ingresso di persone provenienti dall’estero. In questo c’era sicuramente un aspetto positivo. Quindi il fatto che nel momento in cui vengono a mancare dei fondi si vada a tagliare proprio là dove c’è un qualcosa che coinvolge in primo luogo i giovani ricercatori, sicuramente anche dal punto di vista simbolico non è un buon segnale.


Quindi il rientro di cervelli non basterebbe da solo a colmare l’arretratezza della ricerca italiana…

Assolutamente no. Anzi l’idea stessa di voler risolvere il problema riportando in Italia chi è all’estero è una idea che parte da una prospettiva sbagliata. Prima di tutto perché chi è all’estero e si è affermato non ci pensa minimamente a tornare perché ha a disposizione una tale quantità di fondi, di strutture, di indipendenza della ricerca e di riconoscimenti che dovrebbe mettere completamente in discussione una volta venuto da noi, ma poi perché non è necessariamente vero che “estero è bello”, cioè che chi è andato fuori sia di per sé migliore. Ci sono tanti bravissimi ricercatori che operano nelle nostre facoltà, nei nostri dipartimenti che non hanno fatto la scelta di andare all’estero ma sono qua e si confrontano tutti i giorni con un sistema della ricerca difficile, quindi a loro va sicuramente un riconoscimento. Tanto che quando scrivemmo “Cervelli in fuga” ci venne subito dopo l’idea di fare “Cervelli in gabbia”, uscito da pochi mesi, proprio per mostrare l’altra faccia della medaglia, in cui il problema non è la fuga, che per certi versi è anche implicita nel modo di fare ricerca del nostro mondo che contempla il viaggiare, il circolare, ma è il fatto che c’è un sistema tale per cui le persone sono scoraggiate dal modo di fare ricerca in Italia, e se lo fanno sono soggette ad una serie di difficoltà sicuramente non paragonabili a quelle che si incontrano all’estero.


Quali sono le differenze di trattamento del personale tra i nostri istituti di ricerca e quelli degli altri paesi europei?

Il trattamento è senza dubbio diverso per quanto riguarda il personale strutturato. Bisogna dire che per quanto riguarda l’Università in particolare c’è un aspetto che si può sottolineare, e cioè che tendenzialmente i salari italiani sono piuttosto inferiori rispetto al resto dei paesi europei, tuttavia questa differenza è molto minore per quanto riguarda i livelli più avanzati: un professore ordinario non prende un salario di molto inferiore a quello di un suo collega alla fine della carriera in altri paesi; viceversa la differenza si riscontra soprattutto nelle paghe di accesso alla carriera. Infatti, in Italia, un ricercatore all’inizio della carriera, un ricercatore precario viene molto meno remunerato rispetto ad un collega di pari grado all’estero.


Quali sono secondo te le prospettive dopo lo stop del governo al reclutamento dei ricercatori dall’estero?

Questo provvedimento riguardava quelle persone che attualmente fanno ricerca all’estero, unitamente agli studiosi stranieri che venivano a studiare in Italia, quindi l’effetto che si aveva era di un’ibridazione attraverso l’ingresso di personale giovane che aveva fatto esperienza all’estero o che era addirittura straniero, con tutte le conseguenze positive che questo creava in termini di scambio di visioni. Ora questa operazione è quasi impossibile che avvenga altrimenti, dal momento che da noi l’assunzione all’Università passa quasi sempre per una fase di conoscenza preliminare delle persone o addirittura di prestazione di lavoro gratuita o volontaria presso gli istituti, quindi conoscendo i sistemi di cooptazione adottati molto spesso in Italia è molto difficile che una persona, anche validissima, che sia stata all’estero si presenti per avere un incarico e venga presa. Da questo punto di vista ci potrà essere uno svantaggio.

Per quanto riguarda invece il sistema della ricerca nel suo complesso, i problemi rimangono invariati rispetto al periodo precedente il rientro dei cervelli. Infatti la riforma Moratti sull’Università ha inciso, alla fine, molto poco benché nella sua formulazione originale fosse estremamente dannosa e penalizzante nei riguardi dei giovani ricercatori. Ma i molti aspetti devastanti della legge sono stati smussati grazie alla forte opera di contrasto dei sindacati e delle associazioni rappresentative di coloro che lavorano nell’ambito della ricerca. La riforma Moratti si è dunque ridotta ad un qualcosa che sicuramente non è andato a incidere nella sostanza dei problemi dell’Università, dove si attende tuttora che succeda qualcosa di nuovo e di buono. Personalmente, mi auguro, visto che ci sono alcuni parlamentari relativamente giovani che hanno competenze nell’ambito dell’Università e della ricerca, che per una volta si privilegi un’età non avanzata e una competenza elevata nella scelta delle persone che si dovranno occupare di questo mondo a livello governativo.