Mogli e copertine.

di Renato Lo Schiavo da DocentINclasse, 16/5/2006

 

Nel clima di riflessione sulla scuola, che da qualche tempo sembra essere diventato un eccellente sostitutivo delle discussioni sportive (a maggior ragione di questi tempi, in cui di calcio si discute per procura), si inquadra l’edizione italiana del volume del pedagogista francese Philippe Meirieu, “I compiti a casa”, che nell’edizione originale presenta un sottotitolo che alquanto plebeamente (ma non infedelmente) potremmo tradurre “Genitori, figli, insegnanti: per finirla con questa rottura di testa”.

Il libro, uscito in Italia nel marzo 2002, ha suscitato qualche polemica – tuttora aleggiante sulle acque - per via di una frase fatta apposta per innescare discussioni ideologiche: “non si insisterà mai abbastanza sul fatto che qualsiasi rinvio sistematico allo studio a casa è in realtà un rinvio alle ineguaglianze sociali e familiari degli studenti”.

Essendo questa citazione stampata in quarta di copertina, sarebbe possibile risparmiare i nove euro del prezzo d’acquisto e poter far finta di avere letto il libro, anche grazie alla breve presentazione del volume sempre in quarta di copertina, corredata in più dell’informativa che l’autore è padre di quattro figli, ha insegnato a lungo, è autore di numerosi libri di pedagogia e dirige un istituto francese di ricerca pedagogica, elementi che non si capisce bene se debbano fungere da corroborativi o da aggravanti.

Per prendere posizione sull’argomento bisogna allora avere il buon senso di non limitarsi alla lettura della famigerata quarta di copertina e di annotare invece con pazienza gli spunti di riflessione offerti dalle 119 pagine del testo, nato per la realtà francese, che non sempre è identica a quella italiana.

Il punto di partenza di Meirieu è la constatazione che il successo scolastico è legato determinatamente all’investimento (non solo economico) profuso dai genitori nella scolarità dei propri figli, tanto al momento della scelta di opzioni e percorsi quanto nell’interessamento manifestato per il loro studio quotidiano. Probabilmente la maggior parte delle persone considera questa osservazione una sorta di banalità, mentre per il nostro autore si tratta di una situazione nel contempo “del tutto legittima ma assolutamente insopportabile”. Legittima perché i bambini lasciati a sé stessi o all’educatore ‘sono destinati a diventare bambini manipolati e a cadere sotto le grinfie di piccoli o grandi tiranni – capi e capetti, leader politici e guru intellettuali – la cui influenza non è limitata più da nessuno’, insopportabile perché l’interesse generale non può ridursi alla somma degli interessi particolari in concorrenza tra di loro.

Ci vuole quindi una politica scolastica che si sforzi di “abolire, per quanto possibile, le differenze di investimento familiare nel successo scolastico”. Due sono le vie per tendere a ciò: quella ‘preventiva’, che organizzi lo studio a scuola, ‘in modo da rendere inutile il ricorso ad aiuti esterni’, e quella ‘riparativa’, che faccia reperire all’interno della scuola ‘spazi e tempi, interlocutori e disponibilità, per non trovarsi nelle condizioni di dover ricorrere ad un ‘tutore’ esterno, retribuito o volontario’.

Secondo l’autore negli educatori è fortemente radicata la contrapposizione tra lezione (che si fa a scuola) e studio (da farsi a casa), retaggio del modello fascinoso del chierico cattolico, desideroso di un pulpito da cui predicare senza che alcuno possa contraddire.

Intuisco che a questo punto le coronarie dei lettori siano sottoposte a duro sforzo, vuoi perché ad alcuni riesce intollerabile questa legazia clericale, vuoi perché ad altri pare di trovarsi di fronte ad un ferrovecchio concettuale ormai non più presente neppure nei mercatini rionali di Chemnitz (un tempo Karl Marx Stadt). Rianimatevi: probabilmente il nostro autore si sente lontano da entrambe le posizioni e vuole soltanto condire le correnti idee pedagogiche con un po’ di spezie d’annata, come d’altronde hanno sempre fatto tutti i cuochi di questo mondo. Se infatti egli pone l’equazione tra il rinvio allo studio casalingo e quello all’ineguaglianza, subito dopo si premura di chiarire che in ciò non vi è nulla di automatico, perché ‘se le condizioni economiche sono palesemente cruciali, in realtà è il tipo di ambiente familiare ad essere davvero determinante’.

Possiamo quindi esimerci dal citare i nomi di tanti uomini più o meno illustri venuti su da modeste famiglie, ma Meirieu ci tiene a puntualizzare che si tratta di una questione di democrazia, tanto più che oggi non basta il semplice accesso ai saperi, ma ci vuole soprattutto un accesso autonomo e ragionato, in modo che ciascuno possa farli propri.

A questo punto la lettura del volume può seguire due binari, quello politico e quello pedagogico-didattico, che in questa sede privilegeremo.

Trasformati i compiti a casa in un problema, Meirieu cerca di vederne cause, conseguenze e soluzioni. Primo elemento che secondo lui non va, il calendario scolastico: l’anno scolastico è troppo corto ma le giornate sono troppo lunghe, col risultato che gli alunni sono sempre stanchi quando le scuole sono aperte ed in apnea e in stato di oblio durante le vacanze. La stanchezza scolastica innesta il circolo vizioso con la TV, visto che la ‘droga televisiva’ diventa ‘l’unico divertimento praticabile’; l’eccesso di compiti poi penalizza gli alunni più diligenti, che rischiano crisi di rigetto, mentre gli altri, ‘di fronte ad una massa di compiti poco gerarchizzata ed apparentemente inaccessibile, si avviliscono subito’. Con bella espressione, l’autore ci ricorda che lo studio intenso non cura l’anoressia scolastica e che il metodo di studio va appreso a scuola.

Bisogna soprattutto evitare che l’insuccesso scolastico provochi sofferenza ed inneschi il senso di colpa: le difficoltà vanno dunque affrontate con la logica del confronto, separando il piano affettivo da quello didattico.

Altro errore da evitare è la ‘contrattazione scolastica’ (cioè l’esortazione a studiare associando i risultati scolastici con future – ipotetiche – riuscite professionali), in quanto essa spingerebbe i bambini ad abbandonare i propri sogni a favore di ‘un realismo che, limitando le speranze, ne impoverirebbe la vita futura’, ed in secondo luogo trasformerebbe l’apprendimento in un pretesto privo per giunta del ‘benchè minimo ed autentico piacere’.

Indubbiamente quella del ‘senso dello studio’ è una questione centrale, che va giocata tra utilità concreta e valore simbolico, in modo da rendere ‘promettente’ ciò che si deve studiare. Facile a dirsi e difficile a farsi, perché se è vero che lo studente ci rinvia l’immagine del lavoro che noi gli diamo, è altrettanto vero che ‘se ci si pone troppo come modelli, è forte il rischio di rendersi ridicoli’. Ci deve essere un sapiente equilibrio tra distanza e comunicazione, importante per favorire l’autonomia del bambino (ed anche il suo diritto ad una sfera del segreto); l’obiettivo cui tendere è una pedagogia del contratto, realizzata ‘solo quando uno scambio permette di abbozzare una soluzione che non costituisce una disfatta né una vittoria per nessuno’.

La seconda parte del volume cerca di offrire strumenti per aiutare a svolgere i compiti a casa, ma con la premessa che “è necessario diffidare dei consigli metodologici astratti in quanto metodi o strumenti che pretendono di sviluppare l’intelligenza facendo fare esercizi puramente formali, che non sono legati ad alcun contenuto disciplinare o sapere preciso”.

Con un pizzico di autolesionismo, il volume termina con un Epilogo scritto dalla moglie dell’autore, la quale ricorda al marito che malgrado tutti i di lui sforzi, anche a casa loro finisce che il marito pensa e la moglie agisce, pure nel campo dei compiti a casa (“è sempre alla mamma che tocca il piacere di far imparare a memoria le poesie o studiare la lezione di geografia”): in fondo, le mamme sono ‘sollecitate principalmente a controllare o a sostituire un’autorità scolastica manchevole, togliendo la paghetta o la televisione’.

Non ci pare saggio interferire tra moglie e marito e conseguentemente non ci arrischiamo a prendere partito in merito, consigliando comunque la lettura del volume a quanti – e fanno bene – non si fidano troppo della quarta di copertina di qualsiasi volume.