Dispersione scolastica, i falsi dati del Miur.

Abbandoni soprattutto nel nord-est
grazie a un mercato del lavoro sempre più affamato.

Elena Barberi, il Manifesto del 6/5/2006

 

Milano
«Se la dispersione scolastica in Italia è un fenomeno che si attesta globalmente sul 21,9%, vuol dire che non ci si può più nascondere: il problema ha due facce, una politica, l'altra pedagogica». Malgrado che nella sala strapiena del Palazzo delle Stelline - dove due giorni fa si è tenuto il convegno della Fondazione Unidea «Non uno di meno» - nessuno ce l'avesse con lei o con la «sua» riforma, forse a Letizia Moratti sono di nuovo fischiate le orecchie. Non si poteva immaginare niente di meno «morattiano» del vigore con cui il pedagogista Raffaele Mantegazza ha decostruito il modello di scuola «competitiva e aziendalista» destinata a fungere da mera «cinghia di trasmissione» di una società e di un mercato dove anche gli studenti sono soltanto «risorse umane». Il darwinismo sociale, la competitività e l'individualismo sfrenato, come paradigmi di trasmissione di un sapere sempre più insipido e strumentale, funzionano poco e male. Anche perché, dice Mantegazza, nelle aule la vera crescita non è individuale, ma collettiva. Il successo non si misura sulla riuscita dei migliori ma sul «passo degli ultimi».

Già, gli ultimi: la scuola italiana continua a lasciarseli indietro (proprio come all'epoca di Don Milani) e ha soltanto imparato a occultarli nel trionfalismo delle statistiche. Sul sito del Miur l'ignominioso 21,9% che ha fruttato al nostro sistema scolastico la maglia nera nelle classifiche europee, è anch'esso presentato come un mezzo successo. Basta scrivere che costituisce il record europeo nel decremento della percentuale di abbandoni, visto che nel 2000 gli studenti che non rientravano in aula erano ancora di più, il 25,3%. L'obiettivo di ridurre, entro i prossimi quattro anni, il gap con la media europea di dispersione (10%) , però, sembra disponibile solo nella retorica delle magnifiche sorti e progressive della scuola pubblica riformata sotto il segno della privatizzazione. Anche perchè, come ha avvertito un'altra docente di pedagogia intervenuta al convegno, Milena Santerini, la dispersione scolastica non è un semplice indice quantitativo ma un fenomeno complesso che, oltre all'abbandono vero e proprio, comprende varie forme di rallentamento e di insuccesso nel percorso scolastico. Ed è un fenomeno che non è «in diminuzione» (la forbice statistica in cui si muove la fotografia della dispersione scolastica in Italia oscilla tra il 25 e il 21% ) è soltanto uscito dall'agenda delle politiche sull'istruzione, come se si trattasse di una qualunque fisiologia del sistema e non di un dato multiforme che coinvolge non solo la scuola e i ragazzi, ma le famiglie, il territorio, la società, gli stessi modelli pedagogici. «Negli anni '50 si parlava di mortalità scolastica, negli anni '60 si metteva l'accento sull'handicap socio-culturale dei ragazzi, negli anni '70 la riflessione si era concentrata sulla responsabilità della scuola stessa. Ma dagli anni '80 ad oggi il dibattito sembra essersi completamente esaurito». La dispersione scolastica, invece, esiste e per di più si trasforma: ieri riguardava soprattutto l'Italia del sottosviluppo, oggi cresce anche in quella ricca, nel Nord-Est e nel Nord-Ovest «produttivi» dove un mercato del lavoro facile e affamato anche di mano d'opera non qualificata fa concorrenza a una scuola sempre meno motivata. «Per molti ragazzi - dice Santerini - il lavoro subito è un'attrattiva irresistibile. Anche se la pagheranno cara in seguito con un lavoro dequalificato». Dal momento che la scuola si schiaccia sull'azienda, insomma, tanto vale passare subito all' azienda vera. Se l'istruzione tornasse a veicolare quel modello di «indipendenza critica» auspicato dal personalismo di Mantegazza magari ci sarebbe più gusto a rimanere sui banchi di scuola che a gettarsi il prima possibile tra le braccia di Mangiafuoco.