Dalla riforma Berlinguer alle iniziative della
Moratti
Distrutta ogni probabilità che l'Italia formi un'élite moderna
Finanziamenti, crediti, laurea breve
perché i nostri Atenei sono al collasso.
Piero Citati,
la Repubblica del
23 maggio 2006
Negli ultimi sessanta anni, in Italia, sono
accadute molte catastrofi: alluvioni, terremoti, inondazioni. Ma la
catastrofe di gran lunga più grave è stata la cosiddetta Riforma
Berlinguer, immaginata otto anni fa dal governo presieduto da Romano
Prodi. Gli italiani, che hanno la memoria brevissima, se ne sono
dimenticati: ma gli studenti, i professori, il paese ne subiscono il
terribile effetto, che andrà moltiplicandosi nei prossimi anni. Mi
riferisco alle facoltà di tipo umanistico: non a quelle a carattere
sopratutto tecnico.
La Riforma Berlinguer ha distrutto e sta continuando a distruggere la
probabilità che in Italia si formi quella che chiamiamo un'élite
moderna. Non voglio ripetere cose notissime: ma senza un'élite colta e
intelligente un paese non vive, non si sviluppa, non si arricchisce.
Senza un'élite, un paese è votato alla rovina: specialmente nei nostri
anni, quando l'attività industriale si è in buona parte trasferita in
Cina o in India, dove si sta diffondendo una cultura specializzata già
superiore, per certi versi, a quella italiana. Ma all'onorevole
Berlinguer, circondato dal suo radiosissimo alone di gloria, non
importa nulla della nostra classe dirigente.
La catastrofe si preparava da anni. Ricordo un mediocre studioso di
diritto romano lamentarsi dolorosamente, in qualche raduno televisivo,
della mortalità universitaria. Non riuscivo a capire. Pensai che la
Peste, o il Colera, o il Tifo, o l'Aids, o Ebola, avessero spopolato i
folti banchi della Sapienza. Lo specialista di diritto romano
rassicurò il pubblico: no, Ebola non era arrivato fin qui. Il danno
era molto più grave. Gli studenti universitari non terminavano le
facoltà che avevano iniziato: innumerevoli fuori-corso languivano nei
tristi corridoi delle università italiane. Il professore sbagliava.
Che soltanto il venti o il trenta per cento degli studenti di lettere
giungessero alla laurea era un fatto positivo. Se si fossero laureati
tutti, l'Italia avrebbe conosciuto una disastrosa disoccupazione
scolastica. Così, invece, decine di migliaia di giovani ritornavano a
Barletta o a Fabriano o a Alba o a Sanremo: vi aprivano un negozio di
verdure o di formaggi o di tartufi o una piantagione di garofani, e
trascorrevano volentieri il resto della vita, con nella memoria un
vago ricordo di Omero, di Saffo e di Erodoto.
Mi chiedo se, alcuni anni dopo l'applicazione della Riforma Berlinguer,
si possa fare qualcosa per diminuirne le conseguenze negative. Il
primo fatto, generalmente riconosciuto, è che il corso minor di tre
anni non serve a niente: dopo tre anni, lo studente non sa quasi
nulla: non può insegnare nelle medie e nei licei; non gli resta (se ha
imparato una lingua) che fare la guida turistica o lavorare in
un'agenzia di viaggi, eventualmente aggiungendo ai tre anni
universitari un master privato inutile e costoso.
Intanto, il complicato meccanismo di crediti e moduli, che regge
l'insegnamento secondo il modello americano, ha dimostrato la propria
inefficienza. Gli esami si sono triplicati: il lavoro dello studente è
aumentato; salvo che egli impara pochissimo, perché non si può
insegnare qualcosa di decoroso su Shakespeare o Petrarca nel corso di
poche settimane. Non è possibile che La Sapienza di Roma stabilisca
che, durante un modulo, uno studente non debba leggere più di 200
pagine (testi compresi), per evitare che le sue energie
psico-cerebrali e quelle dei genitori e della fidanzata vengano
irreparabilmente logorate ed esaurite. Il sistema dei moduli va
limitato o reimmesso nel vecchio equilibrio degli esami annuali, che
era molto più efficace. Forse andrebbe ricordato che l'uggioso
edificio universitario, con le grandi aule squallide, i melanconici
corridoi, le scale sbrecciate, ha un solo aspetto positivo: che vi si
studi.
Dopo i tre anni di insegnamento minore, gli studenti dovrebbero
affrontare i due anni di insegnamento specialistico: dico dovrebbero,
perché coloro che li hanno abbracciati sono, per ora, pochi. Dopo i
due anni di specialistica, può avvenire un concorso. Chi lo vince,
diventa dottorando per tre anni, e riceve un piccolo stipendio. Ma
dopo i tre due tre = otto anni di studio, la sua carriera è bloccata.
Il dottorando è costretto a diventare, attraverso vari gradini,
professore universitario. Ma se, all'Università, non ci sono posti
liberi? O se egli preferisce insegnare nei licei? Questo gli è
severamente proibito: i dottorandi, vale a dire i più colti e
intelligenti tra gli studenti italiani, non devono insegnare nei
licei, che pure avrebbero bisogno di loro.
C'è soltanto una possibilità. Seguire altri due anni di corsi di
didattica: cosa assolutamente idiota, perché per imparare a insegnare
basta un corso di due mesi, congiunto con la disposizione naturale per
l'insegnamento, senza la quale nessuno diventerà mai professore. Non
voglio nascondere che questo è un discorso puramente fantastico,
perché per il dottorando non esistono, oggi, né posti nell'università
né nei licei. Egli non troverà lavoro. Non farà niente. A meno che una
vasta moria (la quale pare prevista dal nostro profetico Ministero)
renda libere migliaia di cattedre.
Mi piacerebbe raccontare quali nuove cattedre l'onorevole Berlinguer e
i successori e i funzionari ministeriali e i rettori di università e i
presidi di facoltà e i direttori di dipartimento hanno inventato.
Sappiamo che nelle università americane c'è la cattedra di gelato
artigianale, di cappellini per signore, di jeans per ragazzi e
ragazze, di sandali per i tropici, di computer applicati all'analisi
letteraria, di retto uso dei pannolini, di bella conversazione e di
corteggiamento erotico. Va benissimo. Quella non è università. Ma non
sarebbe inutile ridurre radicalmente il numero delle cattedre
insensate, che oggi vengono aperte nelle università italiane.
Una recente circolare del Ministro Moratti prescrive che i professori
universitari devono fare almeno centoventi ore annue di lezioni
frontali. C'è di nuovo, almeno per me, la difficoltà di capire. Cos'è
una lezione frontale? Secondo i dizionari, frontale vuol dire:
relativo alla fronte come parte anatomica: con la fronte rivolta verso
chi osserva: visto di fronte: che avviene nella parte anteriore di uno
schieramento militare: sezione realizzata secondo piani perpendicolari
all'asse dorso-ventrale: facciata di una chiesa: mensola di un
caminetto: piastra di ferro che chiude il fondo di un camino: parte
della briglia che passa sulla fronte di un cavallo: antico ornamento
femminile (cerchietto o nastro o filo di perle): parte dell'elmo;
parte di metallo o di cuoio che copre la fronte del cavallo. Infine,
quasi spossato dalla fatica ermeneutica, trovai nel Dizionario della
lingua italiana di Tullio De Mauro (Paravia) la spiegazione giusta:
frontale è un metodo di insegnamento, nel quale il professore siede in
cattedra, di fronte ai suoi allievi. Non amo molto l'insegnamento
frontale: può essere agevolmente sostituito dalla lettura di un buon
libro.
La vera lezione, sebbene rivolta a non più di trenta studenti, è il
cosiddetto seminario: soltanto nel seminario, compiuto in comune, il
professore insegna agli studenti a leggere un testo, cercando insieme
a loro le fonti e le allusioni e interpretandone le superfici e i
segreti. Ma centoventi ore annuali di insegnamento frontale sono
troppe: un vero professore deve leggere e studiare per conto proprio;
ciò che esige infinito tempo e pazienza. Un ministro o un funzionario
ministeriale o un preside pensano che questo sia inutile. È bene,
invece, che un professore passi mattine e pomeriggi espletando del
lavoro burocratico completamente assurdo, che il Ministero (visionario
come tutti i Ministeri) gli impone.
Un'altra origine di insensatezza è la distribuzione dei finanziamenti,
da parte del Ministero, alle diverse università. I criteri sono molti,
e non posso elencarli tutti. Basterà ricordare che la qualità della
ricerca è un criterio molto meno importante di criteri esterni, come
per esempio il possesso di computer. L'Università Orientale di Napoli
è il luogo che, in Italia, dedica più attenzione allo studio delle
civiltà orientali. Quale importanza (anche pratica) abbia, oggi, lo
studio delle lingue e culture araba e cinese, non è necessario
ricordare. Ma l'Università Orientale ha anche una sezione
"occidentale": un professore di questa sezione ha da poco espresso la
seguente opinione: l'Università deve essere più ancorata ai bisogni
del territorio; vale a dire, suppongo, che l'Orientale, invece di
studiare il buddismo o il manicheismo, dovrebbe dedicarsi allo studio
psico- sociologico della camorra a Caserta e Castellamare di Stabia.
Come è naturale, gli studenti che imparano la lingua e la letteratura
persiana o turca sono meno numerosi di coloro che apprendono la
letteratura italiana o inglese. Ma il Ministero provvede. Per il
Ministero, non ha alcuna importanza che l'Università Orientale
possegga una biblioteca di 200.000 volumi antichi, continuamente
aggiornati, e che eccellenti studiosi vengano da Parigi o Tübingen a
parlare ai giovani orientalisti. Ciò che è grave è che gli studenti
siano relativamente pochi rispetto ai professori. L'Orientale va
dunque punita per eccesso di serietà. Infatti, l'anno scorso, il
Ministero dell'Istruzione ha tolto quattro milioni di euro al
finanziamento dell'Orientale: una catastrofe. Così l'imprecisione,
l'inesattezza, la cialtroneria, la demagogia - questo è per molti
italiani la cultura moderna - si diffondono. Non saranno né imprecisi
né inesatti i cinesi e gli indiani che, un giorno, verranno a
colonizzare la cultura universitaria italiana.