«Noi insegnanti soli in prima linea». di Chiara Vergano, da l'Unità del 30/7/2006
«I tuoi educatori non possono essere altro che i tuoi liberatori» scriveva Nietzche. Educatori, e quindi insegnanti: oggi più che mai, nelle aule e tra i banchi, si trovano a fare i conti con una situazione complessa, ingarbugliata da una riforma ritenuta un disastro dai più. Ma è “solo” colpa dell’ex ministro all'Istruzione Letizia Moratti? A Bologna il dibattito si è acceso sull’onda degli insuccessi e delle bocciature alle superiori, per proseguire con le dichiarazioni di Paolo Marcheselli, dirigente del Csa (il Centro servizi amministrativi, l’ex Provveditorato agli studi), in merito «all'età del percorso e dei curricula formativi di chi insegna». Una discussione partita male , perché Marcheselli aveva indicato, forse senza volere, gli insegnanti cinquantenni come una delle cause del dissesto. Ma com’è cambiata la scuola in questi ultimi anni? Quali le difficoltà? Ed esiste davvero un problema anagrafico per il corpo docente? Tre insegnanti raccontano la loro esperienza. Tre insegnanti appassionati e convinti. Gente che ha sposato con entusiasmo sperimentazioni e impegno totale nella scuola, senza risparmiare tempo ed energie. Il primo è Angelo Tuccio, dell’istituto Keynes di Castel Maggiore: una laurea in architettura, il servizio militare e poi subito l’ingresso nel mondo della scuola. «Insegno da trentacinque anni - racconta -. I problemi, oggi? Intanto, la scuola è stata abbandonata a sé stessa. Ed è stata caricata, in modo improprio, di molte incombenze. Questo è accaduto prevalentemente per gli istituti tecnici. Se c’è un ragazzo disabile, per esempio, raramente viene iscritto a un classico o a uno scientifico: viene mandato a un tecnico o a un professionale. Con la riforma Moratti questa tendenza si è ancora più accentuata. Ho collaborato a lungo con Andrea Canevaro, docente all'Università di Bologna, un grande esperto sui temi della disabilità, e sono profondamente convinto che questi ragazzi siano risorse, che rappresentino una ricchezza. Ma hanno bisogno di programmi di inserimento reali, che purtroppo non ci sono». Il tema dell'inserimento riguarda anche altri alunni: «Agli istituti tecnici - prosegue Tuccio - si iscrivono sempre più ragazzi stranieri, figli di genitori immigrati. Quest’anno avevo cinque alunni che facevano fatica a parlare italiano. Al Fioravanti, in alcune classi, ci sono più stranieri che italiani. Certo, è un arricchimento. Ma i problemi non mancano: la lingua, prima di tutto, e poi l'incontro e il confronto tra culture e religioni diverse. Si parla tanto di didattica differenziata: ma con quali forze? Io insegno ai futuri geometri costruzioni, che è una materia difficile: come faccio a farmi capire da ragazzi che conoscono poco la lingua? Non tutti arrivano qui da piccoli, quando è più facile imparare l’italiano; molti si trasferiscono anche a 15, 16, 17 anni. Mi chiedo: perché per i nuovi arrivati non si fa un anno sabbatico, in modo che possano imparare realmente la lingua? Non si può incaricare la scuola superiore dell’accoglienza, dell’insegnamento dei rudimenti. Diventa drammatico per gli insegnanti. E anche per gli altri alunni: vedono compagni di classe che sono seguiti di più, perché è un loro diritto, perché è giusto che sia così, e che sono aiutati con valutazioni diverse. Ma non sempre questo viene accettato». Si è parlato tanto di boom di bocciature, «ma in molti casi - conclude Tuccio - la bocciatura è un modo per far sì che i ragazzi più in difficoltà consolidino le proprie competenze di base. Bisogna capire dalle scuole il perché di certe situazioni, non limitarsi a sciorinare dati di tipo statistico». «Non si cambia una struttura linguistica impunemente». Il professor Vincenzo Pellegrino, che insegna filosofia e storia al liceo scientifico Fermi, cita Wittgenstein. Perché poi, aggiunge, «si paga il conto». Cos’è accaduto? «È stato cambiato il sistema di comunicazione. I ragazzi - dice Pellegrino, nelle aule scolastiche da più di trent’anni - sono sempre più modellati sui nuovi media, su internet, sui telefonini, mentre la scuola propone un linguaggio diverso. Si fa sempre più fatica a far sì che i ragazzi elaborino, ragionino, riflettano, interiorizzino, discutano. Che si esprimano in modo corretto: e mi riferisco agli alunni italiani. Io insegno in un liceo, tipologia di scuola “riempita” dalla riforma Moratti, che ha svuotato gli istituti tecnici. Questo è un dato di fatto. E la corsa ai licei nasce dalla paura dei genitori di fronte alla nebulosità del futuro, allo sfregio della riforma nei confronti degli altri istituti. Nel tempo, è cambiato anche l'atteggiamento delle famiglie: i genitori incontravano l’insegnante, chiedevano del comportamento dell’alunno. E la scuola era concepita come un mezzo di emancipazione sociale. Ora è tutto voto, promozione». Un insegnante di economia e diritto. È Aurelio Alaimo, nel mondo della scuola da tredici anni. Dal polo scolastico di Castiglione dei Pepoli - dove ha insegnato al tecnico commerciale - si trasferirà quest’autunno, con l’inizio del nuovo anno, al Salvemini di Casalecchio. «La mia esperienza - racconta - è quella di un polo di montagna, una scuola piccola ma molto dinamica. Un mio collega, insegnante alle medie, sostiene che nella scuola sono presenti sempre più zone grigie. E si riferisce a ragazzi con problemi, che presentano grosse difficoltà di concentrazione, astrazione, comprensione del testo scritto. E l’insegnante è poco attrezzato. Il mio, comunque, è un invito all’umiltà: tutti dobbiamo imparare da tutti. Personalmente, in classe mi trovo benissimo; lavoro davvero con grande piacere. Ho molta difficoltà però a fare studiare i ragazzi. Ad esempio, quando spiego diritto loro sono curiosissimi, ma poi si fa fatica a scavare, costruire. È lo studio individuale che viene meno. Credo però che sia importante non pontificare, altrimenti si cade in una sorta di conservatorismo, e guardare ai lati buoni. Ai tirocinanti della Ssis, la Scuola di specializzazione per l'insegnamento secondario, dico sempre: “Prendiamo gli alunni e sforziamoci di trovare almeno due aspetti positivi. Ci devono essere, per forza.”»
di Chiara Vergano / Bologna |