LA SCUOLA SECONDARIA

Sette anni per formare gli insegnanti.

 Alessandro Figà Talamanca, da Il Nuovo Riformista del 13/7/2006

 

Il problema più importante e più urgente che hanno sul tavolo i ministri dell’università e dell’istruzione è quello di mettere ordine nel sistema di formazione e reclutamento dei docenti della scuola secondaria. Si tratta di una sfida che, al di là di tanti inutili dibattiti, metterà alla prova le loro capacità di governo.

Come funziona, dunque, l’attuale sistema di formazione degli insegnanti? Per capirci qualcosa bisogna esaminare la realtà ignorando norme non applicate e spesso inapplicabili.

Prima di tutto non esistono più concorsi per l’accesso ai ruoli. Un’abolizione formale sarebbe in contrasto con la Costituzione. C’è una legge, infatti, che stabilisce che si devono bandire, ogni tre anni, concorsi riservati a chi è «abilitato all’insegnamento». Questo fa salva la Costituzione. L’ultimo concorso però è stato bandito nel 1999 ed è chiaro a tutti che nessun concorso sarà mai più bandito, perché per gli «abilitati all’insegnamento» sono previste altre strade per entrare nei ruoli.

La strada ufficiale per diventare insegnante prevede ora, al posto di un concorso aperto a tutti i laureati, come era un tempo, una lunghissima formazione universitaria (sette anni), per conseguire l’abilitazione all’insegnamento. Chi è abilitato è inserito in una graduatoria dalla quale dovrebbero essere scelti tutti i supplenti. Il punteggio nella graduatoria aumenta in ragione dei mesi o giorni di insegnamento effettivamente svolti, rendendo sempre più probabile il rinnovo di una supplenza per l’anno successivo. Infine, prima o poi, i «primi in graduatoria» sono assunti in ruolo. Solo allora il servizio già svolto viene effettivamente riconosciuto ai fini della anzianità di carriera, e lo stipendio dell’insegnante si solleva al di sopra del minimo. Nella sostanza il mestiere di insegnante è riservato a chi si sobbarca l’onere di una formazione universitaria settennale, seguita da un lungo periodo di lavoro precario e mal remunerato, in attesa del posto di ruolo. Basta il buon senso per concludere che il mestiere dell’insegnante sarà scelto quasi solo da chi, per una ragione o per l’altra, non è altrimenti impiegabile.
Abbiamo parlato finora del percorso ufficiale per ottenere l’abilitazione e, dopo lunghe attese, un’assunzione a tempo indeterminato in una scuola statale. Esso ha almeno il merito di prevedere una selezione sulla base di un (ampio) numero chiuso per l’ammissione agli ultimi due anni di formazione universitaria. Esistono però percorsi, meno selettivi, ma ben più lunghi per entrare nell’insegnamento stabile e nei ruoli. Basta accumulare negli anni un numero sufficiente di brevi supplenze, come «laureato non abilitato», per essere, prima o poi, inserito in una categoria di «precari» difesa dai sindacati. Spunterà allora una leggina che consentirà ai precari di frequentare «corsi abilitanti» assolutamente non selettivi, e di inserirsi anche loro nella fila d’attesa per entrare in ruolo. L’ultima leggina risale ad un paio di anni fa ed è in fase di applicazione.

Ma torniamo, per il momento, al percorso ufficiale. E’ ragionevole, ad esempio, che per insegnare a scrivere o a far di conto ai ragazzi di dodici o tredici anni, siano necessari sette anni di formazione universitaria, a pieno tempo, un anno in più di quelli necessari per diventare un medico chirurgo? Nessuno osa sostenere questa assurdità. Essa è solo l’effetto di un braccio di ferro tra due specie diverse di professori universitari: quelli che presidiano le facoltà di Lettere e quelli che presidiano le scuole di specializzazione per l’insegnamento. I primi pretendono che dopo una laurea triennale un insegnante frequenti ancora per due anni la loro facoltà, per conseguire una laurea specialistica. I secondi insistono che comunque prima di insegnare alcunché si debba frequentare per due anni la loro scuola di specializzazione. Nessuna delle due specie è disposta a perdere potenziali studenti, perché significherebbe, prima o poi, perdere “posti” per le loro discipline. In mancanza di una leadership politica capace di imporre una soluzione ragionevole, è naturale che ambedue le specie di professori siano accontentate in pieno, a spese dell’interesse pubblico.

Riusciranno ora i ministri responsabili a risolvere un problema che il loro predecessore, nonostante generosi (e confusi) tentativi, ha lasciato irrisolto? In questo caso non vale la scusa delle ristrettezze di bilancio. Ridurre da sette a cinque gli anni necessari per la formazione degli insegnanti, non produce aggravi di bilancio. Anzi, dovrebbe produrre risparmi.