Il federalismo dietro il referendum.

 Massimo Bordignon, La da La Voce del 21/6/2006

 

Ci siamo, domenica e lunedì si vota sul disegno di legge costituzionale approvato, con i soli voti del centrodestra, nella passata legislatura. Come già nota Bruno Dente, il centrodestra propone di votare "sì", per poi cambiare nuovamente la riforma; il centrosinistra di votare "no", ma per modificare in ogni caso la Costituzione vigente. Un atteggiamento, per entrambi gli schieramenti, un po’ schizofrenico: sembra più sensato decidere come votare sulla base di quanto scritto nel testo proposto, piuttosto che su uno futuribile. Anche perché se fosse approvata, la nuova Costituzione determinerebbe comunque i possibili successivi interventi correttivi.
Vale la pena votare a favore di questo testo oppure no? Vediamone alcuni punti, anche a correzione delle molte imprecisioni che si leggono sulla stampa o si sentono nel dibattito politico. Mi limito, per spazio e competenza, ai rapporti tra governi.

Riforma costituzionale = devolution

È forse la peggiore delle equazioni proposte nei dibattiti politici. La riforma contiene certo la devolution, cioè il passaggio di alcune competenze su scuola, sanità e polizia amministrativa dall’area delle competenze concorrenti a quelle esclusive delle Regioni. Ma, come ben illustra Floriana Cerniglia, si tratta di ben poca cosa rispetto alle riforme ipotizzate su altri fronti, in particolare per quanto riguarda i poteri del primo ministro, del Presidente della Repubblica, del Parlamento e il meccanismo di formazione delle leggi. Consiglio vivamente di decidere sulla base di questi aspetti, piuttosto che sulla devolution.

Con la riforma si semplificherebbe il quadro legislativo, stabilendo con più chiarezza "chi fa che cosa" tra Stato e Regioni

Questo proprio no. La proposta costituzionale pulisce un po’ il precedente articolo 117, riportando alcune competenze dall’area concorrente a quella esclusiva dello Stato, ma in molti casi si limita a spezzettare ulteriormente le materie, lasciandone un pezzo di qui e uno di là, con il rischio di creare ancora più confusione rispetto alla già confusa ripartizione prevista dall’attuale Titolo V. Considerando, poi, che su questi pezzi diversi della stessa materia, dovrebbero decidere Camere diverse, il rischio della confusione e della paralisi legislativa è massimo. Il problema è anche che confusione e spezzettamento fanno lievitare la spesa.
È vero che le Regioni otterrebbero competenze esclusive su alcune materie importanti come l’organizzazione scolastica e sanitaria - ma non si capisce come diverse o quanto maggiori di quanto le Regioni già non abbiano, almeno sulla sanità. Tuttavia, sarebbero comunque soggette al comma m) dell’articolo 117, che determina i livelli essenziali delle prestazioni, al comma m-bis) sulla tutela della salute e al comma n) sull’istruzione, e dunque alle decisioni dello Stato. Inoltre, sulle stesse materie decide anche il Senato e probabilmente anche la nuova e ora costituzionalizzata Conferenza Stato-Regioni. Anzi, questo è forse il limite principale della nuova Costituzione, frutto delle visioni assai diverse delle forze politiche che l’hanno proposta: sono previsti troppi decisori, con competenze diverse sulle stesse materie, perché possa funzionare.

 

Con la riforma si introduce il Senato federale e si supera il bicameralismo perfetto

È vero il secondo punto, anche se su molti aspetti il nuovo Senato continua a essere decisivo. Questo può creare qualche problema di funzionalità al sistema, perché nella nuova Costituzione, il Senato non è più legato a un rapporto fiduciario con il Governo (e dunque i nuovi senatori non decadono anche se il Governo cade, come succede invece ai deputati).

Perché poi questo Senato venga definito federale è un mistero. La contemporaneità tra elezione dei consigli regionali e dei senatori serve ben poco a legare i senatori ai territori; e ci sono innumerevoli ragioni (differenze nei sistemi elettorali tra Senato e Consiglio regionale, decisioni razionali degli elettori che votano in un modo al Senato e in un altro alla Regione, e così via), perché il senatore non sia in sintonia neppure con il governo della Regione dove viene eletto.

 

Con la riforma si introduce finalmente il federalismo fiscale

Per la verità, la riforma si limita a lasciare del tutto inalterato l’articolo 119, che è quello che definisce il nuovo e ancora non applicato, sistema di finanziamento di Regioni e enti locali. Un errore, perché questo sì che avrebbe meritato qualche intervento riformatore, visto che impone principi di finanziamento e di perequazione difficilmente conciliabili tra di loro. Nelle norme di transizione, si pone però un limite temporale preciso: cinque anni dalla entrata in vigore della nuova Costituzione per la ricognizione delle risorse da trasferire a Regioni e enti locali, e tre anni per l’attuazione dell’articolo 119. Vista la latitanza osservata finora dalle forze politiche nazionali su questo tema, il limite temporale può essere utile.

Peccato, però, che la stessa norma introduca una "perla" difficilmente digeribile: la previsione che "in nessun caso l’attribuzione dell’autonomia impositiva (agli enti territoriali) può determinare un incremento della pressione fiscale complessiva". Non è chiaro come questo debba essere interpretato. Se si intende dire che il decentramento costituzionale deve avvenire senza costi addizionali per lo Stato (non si alzano le tasse per finanziare il federalismo fiscale), questo è già previsto e la norma è pleonastica; se si intende dire che in nessun caso, a regime, gli enti territoriali possono aumentare le proprie imposte senza che qualcun altro (lo Stato?) le diminuisca in pari misura, è assurdo. L’unico sistema di finanziamento degli enti locali compatibile con la norma è un meccanismo basato esclusivamente su compartecipazioni al gettito di tributi erariali; ma significherebbe togliere ogni autonomia sulle proprie entrate ai livelli locali di governo, l’opposto di quanto avremmo bisogno.

 

Con la riforma si aumenterebbero enormemente le risorse che dovrebbe essere attribuite ai livelli locali di governo

Questo argomento, caro agli oppositori (disinformati) della riforma, è palesemente assurdo. In realtà, la riforma in quanto tale non aggiunge quasi nulla in termini di nuove responsabilità di spesa alle Regioni e agli altri enti locali rispetto a quanto già previsto dall’attuale Titolo V.

L’Isae calcola in circa 70 miliardi di euro le risorse che dovrebbero essere attribuite alle Regioni (e a cascata agli altri enti locali) per attuare il presente Titolo V e forse in poche centinaia di milioni di euro l’effetto addizionale della devolution. E la ragione è semplice: la sanità è già per la quasi totalità gestita a livello regionale, e dunque non c'è nulla più da devolvere; l'istruzione (cioè gli edifici e gli stipendi degli insegnanti) dovrebbe già passare alle Regioni sulla base dell’attuale Titolo V. E nessuno sa esattamente cosa sia la polizia amministrativa regionale e locale, quindi è difficile calcolare quanto potrebbe costare. Fossero le guardie forestali, o i vigili urbani, si tratta già di impiegati regionali e comunali e dunque non ci sarebbe nulla da trasferire.

 

Allegati

Le modifiche alla Costituzione