Pensare globalmente, agire localmente.

Intervista a Nadia Masini, responsabile scuola dell’ANCI,
Associazione Nazionale dei Comuni Italiani(*).

a cura di Giancarlo Cerini, da ScuolaOggi del 13/2/2006

 

Pensare globalmente, agire localmente. Questo slogan d’annata, sembra attagliarsi alla sua personale esperienza politica: prima al Parlamento e nel Governo dell’istruzione col Ministro Berlinguer, oggi Sindaco di una città capoluogo di provincia. Ma esiste ancora la mitica “stanza dei bottoni”? Da dove si governa –oggi-  l’istruzione: dal centro o dalla periferia?

Entrambe le esperienze richiedono tempo, dedizione e passione. La stanza dei bottoni –inteso come unico luogo decisionale- forse non esiste più, ma le domande che la “gente” rivolge alle istituzioni, ad ogni livello, sono pressanti e continue, perché incidono sulla vita quotidiana di ogni cittadino e richiedono decisioni continue. Da quando ci si mette in movimento al mattino (ci sarà il blocco-auto?), ai servizi per i figli (troverò posto al nido?), alla scelta della scuola (avrò il tempo pieno?), all’incertezza del futuro (quale scuola scegliere?), al tempo libero (quanto mi costa la piscina? Potrò accompagnarlo al gruppo sportivo? E le vacanze?). In una città tutto questo si avverte prima, anche se a volte, l’urgenza delle risposte “corte” può rendere più difficile mantenere i pensieri “lunghi”. Ma la politica c’è proprio per questo: al centro come in periferia. Anche perché le due dimensioni non sono così distanti come una volta e, comunque, sempre più il Comune è luogo di riferimento per ogni questione, a prescindere dal fatto che vi abbia diretta competenza.

 

Locale e globale si intrecciano continuamente. Si è coniato addirittura il termine “glocal”: per la scuola tutto questo cosa significa?

I cambiamenti degli ultimi 10-15 anni sono ormai netti: lo Stato deve preservare l’unitarietà nazionale del sistema educativo, definendone i livelli essenziali e le norme generali (a tal proposito  non avrei sentito un gran bisogno di rimettere mano ad una nuova revisione costituzionale che può comportare rischi di tenuta unitaria della scuola); tutto il resto rientra nelle competenze delle Regioni, degli Enti locali e delle scuole autonome, legati da una inevitabile relazione che ha bisogno di strutturarsi su un piano di parità. Una maggiore autonomia, in ogni caso, implica la crescita della cultura della responsabilità verso l’intera comunità e l’intero territorio. Tutt’altro, rispetto all’autoreferenzialità o ad un malinteso concetto di sussidiarietà. La “governance” s’impone, ad ogni livello, per assicurare il pieno esplicarsi della “mission” del sistema educativo, che è una risorsa insostituibile per la cittadinanza, le persone, ma anche per la ricchezza di un paese. Siamo nel pieno della società della conoscenza, dell’apprendimento, dell’innovazione continua; sarebbe triste che noi italiani ci adagiassimo sui nostri “allori” passati (non sempre così prestigiosi, se prendiamo i dati sconsolanti dell’alfabetizzazione culturale). La questione “formazione” sarà ancora più centrale per il nostro futuro, richiederà una rolling reform, una riforma permanente (che è un modo diverso di fare le riforme). Ad esempio, prendendo sul serio l’autonomia scolastica, che oggi mi pare alquanto abbandonata a se stessa.

 

Parliamo allora di autonomia della scuola. Sembra essere ad un punto di svolta, dopo il “riconoscimento” operato dal nuovo Titolo V della Costituzione riformata con la legge 3/2001. Quali saranno gli effetti pratici di questa “costituzionalizzazione”?

Il riconoscimento nella carta costituzionale ha segnato, almeno da un punto di vista concettuale, un approccio completamente diverso all’idea dell’autonomia. La scuola entra nello scenario della nuova articolazione della Repubblica, caratterizzata da una più ampia platea di soggetti istituzionali dotati di autonomia. La costituzionalizzazione rafforza il principio di responsabilità delle istituzioni scolastiche e fa cambiare la natura della relazione con gli altri soggetti autonomi, in primo luogo i Comuni. Si tratta di autonomie evidentemente diverse, istituzionale quella dei Comuni (per così dire, originaria e generalista, cioè in grado di far fronte alla generalità degli interessi dei cittadini), funzionale quella delle scuole, cioè derivata dalla legge e limitata alle funzioni-finalità di istruzione e formazione. Tuttavia, il fatto che entrambe le autonomie si trovino normate in Costituzione, afferma un principio di pari dignità e pone l’esigenza di una relazione tra soggetti che non può basarsi su rapporti di subordinazione o di dipendenza gerarchica. Un po’ come avviene, oggi, tra Stato e Regioni. Questo nuovo modello è tutto da esplorare e non può ridursi ad una semplice ingegneria delle relazioni. Tra l’altro, come ho avuto modo di verificare in sede di Conferenza Stato-Regioni-Autonomie, siamo in presenza di ricorrenti tentazioni neo-centralistiche (del Governo, ma anche di qualche Regione).  

 

Regioni, Province, Comuni da un lato ed istituzioni scolastiche autonome dall’altro. Qual è il possibile rapporto tra queste istituzioni, tutte cointeressate al pianeta “educazione”?

Occorre ripensare alle forme di concertazione territoriale, alla rappresentanza delle scuole, alle sedi di programmazione e di decisione. E’ interessante il fenomeno delle associazioni di scuole autonome, come pure le consulte dei dirigenti scolastici. Occorre dar voce anche agli studenti, ai genitori, per non parlare dei docenti. Ma è il territorio spesso ad essere assente. Ben vengano tavoli locali, patti territoriali, forme di condivisione tra comunità economico-sociale e mondo dell’educazione. Il Comune può fare da interfaccia, da provider (non è solo un erogatore, ma un convogliatore di risorse). Occorre però dare qualche regola alle conferenze territoriali sulla scuola, magari nelle leggi regionali sull’istruzione in fase di redazione ovunque. Ma il movimento deve crescere. La qualità sociale di un territorio, il suo “capitale sociale” come oggi si dice, passa necessariamente da questo forma di condivisione di obiettivi (e di risorse, aggiungo a viva forza).

 

La legge finanziaria per il 2006 sembra penalizzare fortemente i Comuni? Come è possibile far fronte alla riduzione reale di risorse a disposizione degli Enti locali?

In ogni caso, penso che le autonomie locali debbano anzitutto adempiere alle loro competenze fino in fondo, e questo bisogna che lo si faccia senza tentennamenti. Il riconoscimento della priorità della formazione comporta un impegno dal quale non deflettere, tanto più in tempi nei quali le risorse finanziarie sono in diminuzione. Non bisogna cadere “in tentazione”, dovendo far quadrare i conti, di ricollocare qualche risorsa finanziaria in qualche altro capitolo di spesa. I segnali che provengono da tanti Comuni, parlano di una buona tenuta delle spese per i settori di istruzione, formazione ed infanzia. Non è pensabile ridurre gli interventi per nidi e scuole dell’infanzia (l’aumento delle nascite implica un rilancio di tali servizi), così come vanno garantite risorse per il diritto allo studio e per il sostegno dell’autonomia scolastica. Non possiamo avvallare l’idea di una contrazione di risorse per l’educazione, sarebbe la smentita più clamorosa di anni di impegni, per non parlare poi degli obiettivi di Lisbona per il 2010. Lo Stato deve fare la sua parte, i Comuni la loro. Non dimentichiamo che il 30 % del costo del sistema scolastico italiano grava sulle spalle degli Enti locali. La qualità della scuola passa anche da questo rinnovato impegno.

 

Uno dei punti “caldi” del dibattito sulla riforma della scuola è senza dubbio l’anticipo dell’età di accesso alla scuola dell’infanzia, al di sotto dei tre anni. Il problema coinvolge direttamente la responsabilità dei Comuni. Cosa pensa in proposito?

Intanto, va riconosciuto che esiste una forte domanda sociale di servizi educativi per bambini al di sotto dei tre anni. Infatti, i bambini che frequentano il Nido (0-3 anni) in Italia sono solo il 7%, mentre gli standard europei ci propongono ormai il traguardo del 30 %. In alcune Regioni siamo anche oltre; ad esempio nel Comune di Forlì –di cui sono Sindaco- raggiunge la quota del 37%. Ma il divario tra domanda ed offerta di servizi rimane alto, anche nei territori più sensibili alla cultura dell’infanzia. E’ un dislivello troppo vistoso, che gli stessi genitori ci chiedono di colmare. Piuttosto che lanciare proposte discutibili come l’anticipo sarebbe stato più saggio studiare le politiche sociali ed educative di alcune Regioni, come in Emilia-Romagna, dove con i “nidi” tradizionali, le nuove tipologie di servizi flessibili, le sezioni “primavera” (pre-materne) già si arriva al 50 % di domanda accolta per i bambini dai 2 ai 3 anni.

Dobbiamo far fronte a questa domanda (le liste d’attesa esistono in tutte le grandi città)  senza farci travolgere, con scelte che tengano fermo il principio della qualità e della centralità dei diritti dei bambini. Tantissimi Comuni hanno esperienze, competenze, passioni, una cultura dell’infanzia collaudata, che può permettere di studiare soluzioni alternative.

 

Intanto, però, l’anticipo voluto dalla legge 53/2003 va avanti. Qual è la posizione dell’ANCI, chiamato in causa anche per i necessari accordi sulle condizioni di accesso al servizio?

Raccogliendo le tante perplessità provenienti dal mondo della scuola e dagli Enti locali abbiamo chiesto ed ottenuto, dal Governo, di “congelare” l’anticipo ai soli primi due mesi (gennaio-febbraio) senza estenderlo al 30 aprile, che avrebbe rappresentato un azzardo pedagogico ed organizzativo. Infatti, mancano tuttora garanzie che l’anticipo avvenga con condizioni adeguate. E’ per questo che abbiamo sottoscritto –nell’autunno 2005- un’Intesa con le Organizzazioni Sindacali e Professionali (il coordinamento) per definire criteri e condizioni di accoglienza (strutture, rapporti numerici, formazione, coordinamento, ecc.). E’ importante che si riapra un periodo di “sperimentazione” (che fino ad oggi, in verità, non c’è stata) per verificare diverse soluzioni del problema. Riconfermiamo in primo luogo la centralità dell’asilo nido pubblico (anzi, dobbiamo rendere servizio “pubblico” anche i cd nidi aziendali ed i servizi domiciliari), alle nuove tipologie che comprendono l’intero arco 0-6 anni, fino a ipotesi di sezioni primavera (dai 2 ai 3 anni di età) che potrebbero coinvolgere pure la scuola di stato. Ma vorremmo “sperimentazioni vere”, con risorse e professionalità adeguate, e con standard di qualità precisi.

 

In vista delle prossime scadenze, come dovrebbe essere una buona riforma della scuola, vista dalla parte dei Comuni?

Non spetta ai Comuni fare le riforme scolastiche (le “norme generali” come si sa, sono di competenza dello Stato, anche in un eventuale stato federale). Tuttavia il punto di vista di chi sta più vicino ai cittadini segnala l’esigenza di un modo diverso di fare le riforme. Queste coincideranno sempre più con il “buon funzionamento” di asili nido e di scuole dell’infanzia, con la qualità e la sicurezza degli edifici scolastici, con i buoni risultati raggiunti dagli allievi, con la frequenza della scuola superiore di tutti gli adolescenti (almeno in un primo biennio unitario fino a 16 anni e con opportunità differenziate successivamente). Sono riforme che si realizzano anche con il rinnovamento degli ordinamenti, ma soprattutto con una saggia azione di tutti i soggetti interessati (amministratori, operatori, insegnanti); ecco perché torna in gioco il ruolo dei Comuni e delle Città. E poi, è necessario, abbandonare una visione “scuolacentrica”.

 

Cosa intende dire, che la scuola ha fatto il suo tempo? Un obbligo ormai inutile?

Niente affatto. La scuola è ancora la principale opportunità di formazione, di integrazione e di uguaglianza tra i cittadini. Però non possiamo pensare che la formazione si esaurisca tutta all’interno delle pareti delle aule. Abbiamo investito parecchio nei luoghi a loro destinati, pensati e gestiti con alta professionalità. (scuole, asili, centri)  Ma il benessere di bambini ed adolescenti non è confinabile in un arco di tempo “istituzionale”, perché i luoghi del crescere bene sono più numerosi (la famiglia, la casa, il vicinato, la città, i parchi, gli ospedali, ecc.) e quindi interrogano una pluralità di soggetti responsabili e di possibili campi di azione, non tutti riconducibili all’iniziativa pubblica. Ad esempio, come aumentare i tempi e la qualità dei rapporti tra genitori e figli, se non cambiando il rapporto degli adulti con il lavoro, la mobilità, le abitudini? Come avere una città più vivibile (una piazzetta per giocare, piuttosto che un parcheggio; una pista ciclabile o un percorso sicuro casa-scuola piuttosto che una strada veloce in più), se non “convincendo” tanti cittadini della necessità di assumere come criterio di valore le esigenze dei piccoli e non solo la “produttività” dei grandi. Una città a misura di bambini richiede forme nuove di compartecipazione agli investimenti, tra pubblico, privato e terzo settore, con idee fortemente innovative.

 

Quali saranno le prossime iniziative dell’ANCI, per promuovere e diffondere la cultura dell’educazione e rafforzare il legame tra scuola e territorio?

L’iniziativa dell’ANCI dovrà sempre più qualificarsi in termini di sensibilità culturale degli amministratori e dei cittadini verso i temi dell’educazione, con forme di supporto tecnico ed operativo, come attenzione alle emergenze vissute sul territorio.

In relazione al primo aspetto, abbiamo lanciato negli ultimi anni, come ANCI e associazioni dei docenti, in primis il CIDI, l’idea del “settembre pedagogico”, come momento forte di attenzione in occasione dell’ apertura dell’anno scolastico. Ogni anno sono centinaia le iniziative che si tengono in comuni grandi e piccoli: non è per un vezzo celebrativo, ma per cominciare a rendere evidente come sia conveniente, per i comuni e per la scuola, la sinergia che rimetta al centro l’idea della scuola e della sua funzione in un territorio.

Il supporto tecnico dovrà sempre più qualificare le professionalità degli operatori, sia di quelli che agiscono nei servizi educativi (anche di fronte a nuovi bisogni, penso alla scolarizzazione degli stranieri), sia di quelli che operano nelle strutture di supporto amministrativo. E’ necessario affrontare con più energia il tema della “governance” locale del sistema educativo. Norme sottovalutate e mal applicate (dalla legge 59 al dpr 112, dal titolo V alle sentenze Costituzionali): occorre un salto di qualità nel governo concertato. La pratica dei “patti educativi”, i protocolli, i servizi territoriali, le professionalità integrate, non possono essere fiore all’occhiello solo di qualche Comune illuminato.

Sulle emergenze, segnalo come decisiva la questione infanzia. Non solo per contrastare riforme che non ci piacciono, ma soprattutto per far fronte con intelligenza alle nuove domande che emergono da famiglie e genitori che sono cambiati, all’interculturalità presente e futura, alle tipologie di servizi da ripensare. Penso che dovremo dedicare seminari ed iniziative pubbliche ad una rinnovata cultura dell’infanzia, che ha nei Comuni un indispensabile punto di riferimento. Per questo, come ANCI nazionale, stiamo lavorando per un convegno nazionale proprio sui temi dell’infanzia.

 

(*) L'intervista, curata da Giancarlo Cerini, sarà pubblicata sul n. 2 (marzo-aprile 2006) della "Rivista dell'istruzione", Maggioli ed. in un fascicolo dedicato in larga parte al fenomeno delle reti di scuole.