Professore o Don Chisciotte?

Luigi Galella, da l'Unità del 20/2/2006

 


Quando mi chiedono «Che lavoro fai?» e rispondo che sono un insegnante, noto il più delle volte che il mio interlocutore ribatte con un sorriso. Non succede con altre professioni, alle quali si replica con espressioni di curiosità, di interesse, di invidia. Con gli insegnanti, invece, si sorride. Segue un attimo di silenzio, quasi imbarazzato, come se ci si scusasse dell'inopportuna domanda, quindi si fa presente che si tratta di un lavoro socialmente determinante, se solo... Altri invece si avventurano nelle proprie rimembranze scolastiche. Qualche aneddoto, gli insegnanti bislacchi, quelli fuori di testa, i capaci e gli asini, i permissivi e i severi. C'è chi ci tiene a metterti al corrente di un professore del liceo con cui è ancora in contatto e che ha avuto un'importanza decisiva per la sua formazione. Riflessione che colora il sorriso di una venatura riconoscente e melanconica. E chi invece si limita a sorridere, senza nemmeno troppo dissimulare i propri sentimenti, che mescolano l'antica avversione verso i propri professori, con la volontà di rimarcare una distanza, tutta moderna, sociale ed economica. Sorrisi che ci parlano di una società che si è mossa tumultuosamente, in un modo o nell'altro, talvolta nell'illegalità e nella spregiudicatezza, mentre noi insegnanti siamo gli unici ad esser rimasti indietro. Così, faticosamente, trasciniamo l'ultimo carro, dentro un nostro mondo sempre più astratto. Quando qualcuno rivolge lo sguardo indietro e a malapena ci intravede, sorride.

O forse la categoria del sorriso è più generale, quasi metafisica. In essa si rappresenta ironicamente e si risolve lo scacco e il riscatto di sé: un dovere mancato, un sapere non acquisito, un ostacolo evitato: senso di colpa e autoassoluzione. Sciogliendo la dialettica fra ciò che si sarebbe voluto essere e ciò che si è. Fra passato e presente. Delimitando i confini simbolici dell'autorità e dei mille timori che aveva suscitato, dentro uno spazio di quotidiana prossimità. Come portarsi al guinzaglio, ormai mansueto e docile, il leone della propria infanzia.

Anch'io, di recente, mi scopro talvolta a sorridere. Di me e dei miei colleghi. Come mi è accaduto in occasione dell'autogestione, chiesta e ottenuta dai ragazzi in forma di “didattica alternativa”. Ho visto la mia collega di Diritto, richiesta dagli stessi alunni, tenere un corso sulla legalità nell'aula magna, e ho sorriso dei suoi sforzi, del suo temperamento generoso e volenteroso. Tutto concentrato a sviluppare gli argomenti della propria scienza, incapace di captare il disinteresse della folta platea. O meglio, in grado di vederlo, ma deliberatamente cieca nel considerarlo. La lezione, innanzitutto. Il proprio dovere di insegnante. Anche di fronte alla distrazione e all'indifferenza. Di fronte a quel sipario che scivola silenzioso sul volto dei ragazzi e li separa dalla nostra, sempre debordante, loquacità. Ho sorriso perché mi è sembrato di veder riassumere nella lezione tenuta dalla mia collega un concetto quasi eroico del nostro compito, una sorta di “follia” vissuta come necessaria. L'insegnante come una sorta di cavaliere fuori dal tempo, lancia in resta contro il nemico, sordo alle seduzioni di una realtà che si trasforma, che infine non sa più contro quale avversario si dirige e dove e come debba indirizzare i colpi.

Così non mi sono stupito quando nell'aula dove svolgevo una lezione, si è aperta di scatto la porta ed è apparsa una ragazza, che nel vedermi si è fermata, sorpresa, quasi spaventata dalla mia presenza, e con la stessa rapidità con cui stava per entrare, ha fatto marcia indietro e ha richiuso. Ma prima, rivolgendosi all'amica che l'accompagnava, ha esclamato: «Oddio! C'è don Chisciotte!». Lasciando increduli i miei alunni, che si sono guardati senza sapere cosa dire, quindi si sono rivolti verso di me e hanno replicato: «Professore: l'ha chiamata don Chisciotte!». Scoprendomi silenzioso mentre riflettevo e, tra me e me, sorridevo.

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