AGAINST EDUTAINMENT.
Il coraggio necessario d'essere inattuali.
Stefano Borgarelli, da
DocentINclasse, 9/12/2006
“Dovete amarli!”.
Non ero sicuro d’aver capito bene. Nei collegi docenti il vocìo
insistente (crescente, più lontani si va dal bancone del Preside...
ops! del Dirigente) è lo stesso che regna nelle aule dopo la
campanella. Dopo l’intervallo. Dopo il cambio dell’ora con un collega.
Dopo. Era invece nel bel mezzo d’una filippica sul nostro disamore
(presunto) per gli studenti-clienti dell’azienda-scuola (sono loro,
quelli da “amare”), che il Dirigente aveva piazzato a effetto
l’imperativo erotico (nel senso platonico dell’Eros, si capisce),
nonché pedagogico. Per Contini, le due cose erano state una sola,
nella figura più pervasa d’eros pedagogico che il grande filologo
avesse incontrato nella sua carriera di studente: il suo maestro
elementare, di cui raccontò in una bella intervista.
Sì, poteva essere proprio quello, l’amore imperativo cui ci esortava
nel vocìo il nuovo Dirigente, da poco insediato e già scontento. Ma
anche ammesso che si possa amare sotto prescrizione (quell’amore lì è
come il coraggio per Don Abbondio, che uno non se lo può dare se non
ce l’ha, e i Don Abbondio abbondano in ogni categoria), mi chiedo di
nuovo quale sia il modo migliore per me (prof, d’italiano) d’amare il
cittadino-studente (meglio che utente, molto meglio che cliente), nel
corso della sua sperabile crescita culturale.
Non è stata la scuola che mi ha messo in mano le
Favole al telefono
di Rodari, ma i genitori colti d’un amico che passava la sua infanzia
in una famiglia ricca di stimoli culturali. Sui banchi delle
elementari (nei primi anni Sessanta), ricordo più che altro letture
sbiadite, da sussidiario pieno di sussidi edificanti. Una modica dose
di pathos arrivò alle medie, ma dai libri per l’ora di lettura esalava
sempre in anticipo un’austera morale (non erano più favole, ma letture
civilmente alte, formative intendiamoci, come per esempio quella
Casa di campagna
il cui titolo scolastico abbreviava L’inventario
– della casa di campagna, appunto – scritto dal grande giurista Piero
Calamandrei, che aveva rifiutato di giurare per il fascismo).
Il piacere della lettura arrivò per altre vie. Con una grande passione
per la pesca, incontrai il Nick Adams dei racconti (Quarantanove) di
Hemingway, sullo scaffale dei libri di casa. Una brossura
Mondadori da lire 350 (clicca) in cui
Nick andava a pesca di trote risalendo i torrenti, gettando l’amo in
corrente a volte per pagine e pagine. Finalmente il piacere di
leggere. Con la quarta liceo, e ancora di più con la quinta, arrivò il
piacere di capire quanti e quali strati di senso si potevano
intravvedere in un testo. Si scopriva che le righe in realtà sono
pieghe. Quante più pieghe, tanto più piacere del testo. Da cui ti
staccavi sempre meno. Leggere diventava anche (spesso: soprattutto)
rileggere. Di qui la scelta di studiare a Lettere.
Vorrei mettere i classici in mano ai miei studenti come fossero
Favole al telefono. Ogni volta (ogni mattina, in pratica) che li
rileggo in classe, cercando di rendere sempre più smilzi i preamboli
da un anno all’altro (ne compio ventuno d’insegnamento quest’anno), lo
faccio sperando che la mia voce arrivi oltre il muro che ci tiene
separati. C’è di mezzo la barriera culturale. Pare che i giovani della
terza fase – secondo la nota
formula di Simone (clicca) – non
sappiano più bene cos’è una pagina scritta (e che nemmeno gliene
importi, di saperlo). C’è di mezzo la barriera prossemica.
Tutti i giorni nella gabbia della cattedra, dei banchi, la cui
disposizione non è solo funzionale, ma anche connotazione d’un ordine
quasi metafisico, inossidabile, fuori del tempo (Lama fu sputato dagli
studenti del ’77 anche perché si era presentato all’università da un
palco frontale, alto, ma gli studenti seguivano nello stare assieme
schemi “cubisti”, multidimesionali, come ha spiegato Eco in un saggio
della raccolta
Sugli specchi (clicca).
C’è di mezzo la barriera burocratica. Quando entra la bidella, tutti
sanno che la circolare della segreteria vale più d’un canto di
Leopardi, perché può spegnertelo nella strozza e obbligarti a far
circolare il comunicato numero tale (progressivo, come le
magnifiche sorti
leopardiane) che s’inframmette tra un settenario e un endecasillabo.
C’è di mezzo la barriera istituzionale. E’ la famiglia l’istituto più
forte. Lo stampo, il modello dei comportamenti (se a casa non si
legge, perché mai si dovrebbe farlo a scuola, e poi, di nuovo, a
casa?).
Ma è di gomma, l’armatura interna del muro più resistente che si trovi
dentro la scuola. Gomma di ultima generazione. Generata dai luoghi
comuni della pedagogia e della psicologia più corrive e inflazionate,
per i quali non si può far fare un passo (a chi impara, a chi deve
imparare), se non c’è la cosiddetta motivazione a farlo. Perché mai la
scommessa non dovrebbe essere invece che gli studenti possano trovare
l’odorosa pantera (per dirla con Dante) della motivazione a leggere un
classico, nella passione (e nel mestiere) che il prof mette nella sua
lettura, nella sua spiegazione, ponendo al centro degli oggetti da
amare la sua materia, e non la melassa psico-pedagogica su cui si sono
volute ripiantare le palafitte della scuola riformata?
Ancora oggi, credo sia in una lettura fatta come Dio comanda, in
un’argomentazione chiara, che dobbiamo concentrarci per tentare di
sprigionare a scuola quel fuoco che a casa magari nessuno sa, magari
nessuno può, accendere (ma che a casa potrebbe anche, chissà, essere
riportato acceso, tornando da scuola…). Dobbiamo rimetterci (credo) a
interrogare criticamente noi stessi, quando ci rivolgiamo a una classe
che per un’ora può tornare composta da uditori antichi,
acusmàtici.
Cercando d’esplicare – di svolgere dal plico che l’avvolge, vedi alla
voce: “Argomenti svolti”, nel registro del docente – il linguaggio
stesso che usiamo per spiegare – i contenuti non sono dati, ma
intepretati, naturalizzarli
è fare ideologia. Cercando di
squadernare i significati di un testo
letterario. Cercando di distinguere la narrazione d’un fatto storico
dai giudizi di valore che hanno a che fare con quel fatto. E poi
dichiarando le nostre propensioni. Senza reticenze. Cercando in questo
modo di dimostrarci non tanto obiettivi (falso mito, questo
dell’obiettività!), quanto onesti. Intellettualmente onesti, in un
rapporto autenticamente formativo con i più giovani.
Non sottrarsi all’atto educativo che
meglio corrisponde a un preciso compito civile dell’insegnante
(oscurato dal cono d’ombra dilagante dell’edutainment, dell’infotainment),
questo conta, oggi come ieri. Passare il testimone da una generazione
all’altra (altro muro, ma anche crepaccio in cui calarsi, ciascuno con
la propria storia, la propria identità, formata o in formazione, da
mettere in gioco nel confronto). Tecnologie didattiche sofisticate e
psicologia spicciola lo lasciano in piedi intatto, il muro
dell’equivoco. Per picconarlo dovremmo decidere (credo), noi prof,
d’essere senza troppi timori inattuali. Di fare ritorno dal frullato
zuccheroso delle motivazioni senza doveri, senza compiti civili, alla
forma più problematica delle nostre materie d’insegnamento. Ecco il
vero, responsabile, non ipocrita atto d’amore. Questo sì dovuto.
Questo sì doveroso.