In Italia un'istruzione senza qualità. Il Sole 24 Ore del 16/9/2005
In Italia l'istruzione cresce, ma è carente proprio nei settori decisivi per lo sviluppo: questa, in sintesi, è la lezione che possiamo trarre da Education at a glance, il consueto Rapporto annuale sull'evoluzione dei sistemi educativi dei Paesi Ocse ( più alcuni Paesi interessati a partecipare a questo tipo di indagine) che Andreas Schleicher, direttore del dipartimento di analisi statistiche del settore educativo dell'Ocse, ha presentato ieri. L'Italia continua a essere debolissima, in particolare, nei due segmenti chiave: l'istruzione universitaria e l'istruzione permanente ( si vedano i grafici pubblicati a fianco). Il Rapporto fotografa una situazione assai diversificata e in rapido movimento. Tutti i Paesi riconoscono la centralità del problema educativo, tanto più in una fase economica in cui la globalizzazione accentua l'asprezza della concorrenza internazionale. Ma non tutti riescono a tradurre questa consapevolezza in atti concreti: alcuni hanno compiuto in poco tempo passi da gigante per preparare le nuove generazioni alla sfida, altri sembrano segnare il passo. Uno di questi, purtroppo, è l'Italia. Se analizziamo i risultati raggiunti dal nostro Paese, dobbiamo constatare che l'istruzione cresce ancora troppo lentamente e, soprattutto, in modo squilibrato. Le risorse che investiamo non sono poche: dalla scuola materna alla secondaria superiore ( quella che si conclude con il diploma) spendiamo per studente più della media dei Paesi Ocse. Eppure nei confronti internazionali ( i dati dell'ultima indagine Ocse Pisa vengono richiamati dal Rapporto) i nostri quindicenni si collocano sotto la media Ocse nelle prove di lingua, matematica, scienze e risoluzione di problemi. Come mai il nostro investimento, pur rilevante, non si traduce in risultati soddisfacenti? La ragione è semplice: perché quando spende in istruzione l'Italia si lascia guidare da un'ottica quantitativa anziché qualitativa. Spendiamo male perché spendiamo con criteri sbagliati e senza verificare seriamente i risultati. Alcuni esempi tratti dal Rapporto dell'Ocse presentato ieri lo dimostrano in modo davvero inconfutabile. Sappiamo da anni quanto sia importante l'aggiornamento sui luoghi di lavoro, in un contesto produttivo in cui le attività si trasformano in continuazione. Ebbene, proprio qui l'Italia si rivela quasi il fanalino di coda dei Paesi Ocse: come si vede dal grafico pubblicato a fianco, nei corsi frequentati sui luoghi di lavoro noi ci collochiamo agli ultimi posti. Il sistema produttivo mondiale evolve assorbendo quantità crescenti di sapere, soprattutto scientifico: la disponibilità di buoni laureati diventa così un fattore chiave per lo sviluppo. Secondo il Rapporto un'istruzione più elevata frutta a chi ne è in possesso un consistente beneficio in termini di stipendio, ma genera anche un corrispondente vantaggio sociale in termini di maggiore produttività: dal 3 al 6% in più per ogni anno in più di istruzione. Eppure in Italia i laureati continuano a essere un bene scarso ( poco più del 10%!) non solo nelle fasce di età avanzata ma anche tra i giovani. Anche altri Paesi partivano in svantaggio, ma sono corsi ai ripari. Si veda il caso della Corea. Nella popolazione di età avanzata i laureati sono una percentuale di poco superiore al 10%: ma la percentuale dei laureati supera il 50% tra le persone di 25 34 anni. Che un'ottica meramente quantitativa domini i criteri di assunzione e retribuzione dei nostri insegnanti è ben noto. I nostri docenti sono pagati meno della media Ocse, e in modo uniforme. In compenso sono in numero tale che fanno schizzare verso l'alto la nostra spesa per studente e, soprattutto, tolgono risorse per gli incentivi al merito, per i nuovi strumenti educativi, per la ricerca, per la valutazione dei risultati. Ma ancora più chiaramente quest'ottica quantitativa emerge dal confronto tra le ore di lezione obbligatorie nei vari Paesi. Tra i 7 e i 14 anni i giovani italiani possono contare sull'insegnamento più lungo del mondo: in totale più di ottomila ore di lezione, contro una media Ocse di 6.852 ore e meno di seimila in Finlandia, il Paese che per ben due volte consecutive ha battuto tutti gli altri nei confronti internazionali. Con tante ore di lezione non dovremmo essere i primi? Ma il paradosso non deve stupirci. Non si impara studiando molto, ma studiando bene: le poco più di cinquemila ore della Finlandia " rendono" più delle nostre ottomila. Insomma, nel metodo stesso del nostro sistema educativo c'è qualcosa di profondamente sbagliato: più ore di lezione, senza verifiche e senza controlli di merito, non sono un beneficio ma un danno per lo studente. Lo sapevamo già, in teoria: adesso l'Ocse ce l'ha dimostrato. |