Un concorso di cause: la formula «3?2»,
i crediti formativi e il mito del «pezzo di carta»

Lauree brevi e altri pasticci

Così è demolito il titolo di «dottore».

Beppe Severgnini, Il Corriere della Sera del 29 settembre 2005

 

V oglio tranquillizzare Sara Marcon, lettrice trentenne giunta al sesto stage gratuito: con la laurea in Scienze della comunicazione può ambire al posto di portiere condominiale a Roma, rispondendo a un annuncio dell'agenzia Ad Interim («Angeli per Aziende che Contano»). Leggo: «La risorsa si occuperà della custodia e della sorveglianza dello stabile e curerà la pulizia di scale e pianerottoli. Requisiti: età 25/30 anni, domicilio a Roma, diploma o laurea, pregressa esperienza, disponibilità immediata». Dimenticavo cosa offrono. «Contratto a termine di due settimane per sostituzione». Tranquillizzo anche i lettori: questo non è un altro articolo sui guai dell'università italiana, che è una parola astratta. E' un articolo sui guai degli universitari, che sono italiani in carne e ossa. Ma i ragazzi e le ragazze devono sapere cosa li aspetta. Questo: il loro titolo di studio avrà un valore legale ma non un valore reale. Molti di noi speravano accadesse il contrario, ma è andata male. Solo Dostoevskij e un capomastro saprebbero descrivere la metodica demolizione del titolo di «dottore» in Italia. Ma proviamo comunque a cercare i responsabili, così da poterli ringraziare.

Il primo è il sistema «3?2», che ha spinto le università a moltiplicare i percorsi di laurea. Questo ha reso felici i docenti, ma ha aumentato la gloriosa confusione che regna sotto il cielo accademico. In Italia ci sono 3.028 corsi di laurea triennale, ma solo 2.923 hanno registrato iscritti. Se ne deduce che 105 non abbiano alcun iscritto. Non è il caso di «Lingue e cultura italiani per stranieri» a Pisa: un iscritto. Scrive Il Corriere dell'Università e del Lavoro : non avrà dovuto sgomitare per entrare in aula.
Racconta un dottorando genovese (Roberto Abram): «L'università sta diventando un liceo più o meno tecnico, mentre la scuola superiore è diventata una scuola media (non più rimandati, ma debiti formativi). Non ci dobbiamo stupire se, una volta laureati, ci offrono compensi da diplomati; né ci dobbiamo rattristare se, per avere una preparazione universitaria, siamo costretti a fare uno o più master e c'affacciamo tardi sul mondo del lavoro». Poteva aggiungere: questo avviene anche negli Usa (il college è un liceo con un bel giardino; poi c'è la graduate school ). Ma in America ci sono arrivati per scelta, non per disperazione.

Un colpo al titolo di «dottore» l'ha dato il governo - non questo, quello di prima - col Decreto Legge 03/11/99, n°509, secondo cui «le università possono riconoscere come crediti formativi, secondo criteri predeterminati, le conoscenze e abilità professionali certificate...» (per questo il Cepu può accantonare Del Piero e Vieri - in sintonia con le rispettive squadre - e annunciare: «Oggi puoi laureare la tua esperienza!»). Un'altra bottarella viene dalle «lauree estere» come quelle rilasciate dalla Clayton University di San Marino, che sembra americana ma non richiede l'inglese e dà un indirizzo di Hong Kong (a Stefano Ricucci vorrei chiedere: perché un uomo così ricco vuole un titolo tanto povero?).

Ma la spallata finale al titolo di «dottore» - diciamolo - l'abbiamo data tutti noi: adulti e famiglie, parenti e giornali, scuola e tv. Noi che abbiamo fatto credere ai nostri ragazzi che nella vita bastano un pezzo di carta e un po' di creatività; e non occorrano invece competenze, fatica e noiosissimi numeri. Scrive Roberto Napolitano in «Fardelli d'Italia»: quest'anno c'erano 4 mila matricole in matematica e fisica contro 54 mila in scienze della comunicazione. Il guaio è che tra poco non c'è più niente da comunicare. Se non una certa preoccupazione: ma, per quella, basta quest'articolo.


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