P a v o n e R i s o r s e

 

Alunni non italiani a scuola . . .

. . . e se cambiassimo prospettiva?

 Aluisi Tosolini, da Pavone Risorse del 18/9/2005

 

In questi giorni molti quotidiani hanno rilanciato le anticipazioni dell’annuale rapporto del MIUR sugli alunni con cittadinanza non italiana che frequentano le scuole italiane.
Le proiezioni degli anni precedenti risultano confermate al rialzo: si parla infatti di 420.000 studenti stranieri, il 4,2 della popolazione scolastica. In 20 province, collocate soprattutto sulla dorsale appenninica e della pianura padana, la percentuale di presenze si colloca tra il 7%, ed il 10,9%.

La regione con la percentuale più alta è l’Emilia Romagna (8,4%) mentre l’incidenza più alta a livello provinciale tocca a Milano con l’11,6%.

Il 40% degli alunni frequenta le scuole primarie, il che significa che la crescita, nei prossimi anni, sarà costante e che il processo migratorio in Italia ha assunto connotati di stabilità e sta strutturando una nuova compagine sociale in cui le famiglie immigrate comprano casa ed investono su un futuro in Italia

Dove sta, allora, la novità?

I dati sono presentati dalla stampa e dai media con un certo stupore misto a meraviglia che merita una qualche riflessione più approfondita.

Occorre infatti chiedersi che senso abbia stupirsi ed anche, onestamente, se non è giunto il momento di superare nei fatti una visione che continua ad operare secondo la logica "noi-loro".

Occorre, in sostanza, passare davvero a quella che alcuni studiosi ed esperti di formazione (penso in particolare ad Antonio Nanni ed a quanti si ritrovano nell’esperienza della rivista CEM Mondialità, la prima, storica, rivista di educazione interculturale in Italia) hanno chiamato la fase due dell’educazione interculturale.

 

Educazione interculturale: la fase due

La fase, cioè, in cui, come da anni sosteniamo su PavoneRisorse, l’educazione interculturale diventa la normalità dell’educazione nelle società globali e multiculturali.
Occorre uscire dalla logica italiani/stranieri perché questa logica continua ad ingabbiare i processi formativi entro una falsa pista che distingue tra scuola "normale" e "scuola con alunni non italiani".

Il che non significa, ovviamente, che non si debba più parlare di accoglienza, di italiano come L2, di mediatori culturali. Ma tutto questo non basta. Non bastava ieri e basta ancor meno oggi in città sempre più complesse e multiculturali.

Non può bastare, ad esempio, per la scuola di Prato dove, secondo stradario, a quanto dichiarato dall’assessore competente, si è venuta a formare una classe costituita tutta da studenti "stranieri". Che fare in questo caso? Nulla. Far scuola, far educazione, non c’è altro da fare. Ma far scuola a Prato oggi significa qualcosa d’altro rispetto a 30 anni fa.
Questa è la realtà. Né brutta né bella: solo la realtà cui ogni scuola è chiamata a rispondere con la propria progettualità.
Una progettualità a cui forse è necessario cambiare prospettiva assumendo la dimensione della pluralità e della differenza come dato di partenza e non come elemento straordinario che genera turbative da ricondurre all’ordine.
Concentrarsi sulla logica "noi-loro", italiani stranieri (ma… stranieri rispetto a chi, se riferito a bambini di 6 anni nati e cresciuti in Italia da genitori immigrati magari 10 anni fa?), cittadini comunitari ed extracomunitari, rischia di ridurre tutto il nodo dell’educazione interculturale alla dimensione della conoscenza più o meno folklorica di culture altre oppure al nodo della mediazione linguistica.

In realtà oggi ci troviamo di fronte all’urgenza di operare per la costruzione di una nuova cultura in cui ognuno e tutti (italiani e non) possano sentirsi a casa. Una cultura plurale in cui ognuno possa nel contempo integrarsi e differenziarsi, sentirsi a casa ma anche veder rispettata la dimensione irriducibile della propria identità ed esperienza di persona.

Questa è la scommessa. Che non si vince, occorre pur dirlo con onestà, con un aumento dei pur necessari mediatori, quanto piuttosto con la capacità della scuola di cambiare se stessa, le proprie prassi, i propri modi di funzionamento e di organizzazione, la propria concezione di cultura e di saperi.

In sostanza una scommessa che si può vincere se e solo se la scuola torna ad assumere quel ruolo di intellettuale sociale di cui si sente ogni giorno di più la mancanza.