Vademecum per la nuova scuola. Marina Boscaino, l'Unità del 30/10/2005
Una buona scuola non è semplicemente il frutto di una buona legge. Ma certamente una buona legge aiuta a costruire una buona scuola. La trionfale messe di goal realizzata dal Ministro Moratti nell'ultimo mese - l'approvazione del decreto sulle scuole superiori nonostante le drammatiche conclusioni cui gli Enti Locali erano giunti su quel decreto (conclusioni che hanno però reso possibile il rimandarne l'attuazione di un anno); l'approvazione del Ddl sul riordino della docenza universitaria - non rende migliori la scuola (e l'università) che il governo Berlusconi lascerà in eredità al Paese. Anzi. Il quadro che si può dedurre dal decreto sulle superiori come da tutti i precedenti, relativi agli altri livelli dell'istruzione, ci parla di una scuola sempre più povera. Una scuola che immaginiamo solamente, come in un brutto sogno. Perché fortunatamente molte delle innovazioni targate Moratti non sono ancora state realizzate, sia per la mancanza di fondi, sia per la «disobbedienza» di molti istituti - soprattutto elementari - che sono ricorsi a tutti gli strumenti a propria disposizione per evitare l'applicazione della controriforma. Questa cattiva legge va cambiata, soprattutto se mette in pericolo uno dei presupposti costituzionali cui la scuola pubblica italiana si è ispirata. Questo obiettivo che molti considerano fondamentale non deve impedire di riflettere su tutto quello che nella scuola - anche prima che la Moratti diventasse ministro - non andava. Nodi particolarmente problematici che richiederebbero uno straordinario impegno economico, e straordinarie energie da spendere. Diritto allo studio. Questa formula si traduce immediatamente in spesa. Se solo smettessimo di considerarle delle baby sitter, se ci fermassimo a valutare con minore superficialità il ruolo fondamentale e le competenze straordinarie delle insegnanti della scuola materna - unite al particolarissimo momento in cui i bambini, dai 3 ai 6 anni, vengono loro affidate - ci renderemmo conto che il primo irrinunciabile investimento di un sistema scolastico deve essere una scuola materna per tutti. È la prima idea di società compiuta nella quale ci si trova ad interagire, là dove si apprendono principalmente le abilità sociali, le regole dello stare insieme e del rispetto per l'altro. È da qui che deve partire l'applicazione del diritto allo studio, che prevede la rimozione di ogni ostacolo che impedisca ai più giovani di disertare o di non sfruttare al meglio il luogo della crescita, come persone e come cittadini. E così, dalla scuola materna alle superiori, l'innalzamento progressivo dell'obbligo scolastico fino ai 18 anni si impone quale scelta di civiltà. Diritto allo studio significa investimenti sulla scuola, anche attraverso l'individuazione di figure professionali di supporto ai docenti per contrastare la dispersione scolastica, di cui molto spesso le condizioni sociali dei ragazzi e le problematiche personali sono responsabili; non esclusione, cultura della solidarietà e del rispetto: integrazione dei minori diversamente abili, ore di sostegno non centellinate e parcellizzate tra i ragazzi che ne abbiano bisogno, ma distribuite secondo le reali necessità che la politica del risparmio tende sempre a sminuire. Significa ancora classi meno numerose e continuità didattica assicurata, perché il rapporto insegnanti-alunni è da lungo tempo individuato in modo da non tener conto delle reali esigenze degli studenti da una parte, delle frequenti difficoltà degli insegnanti dall'altra. Quale cultura. Occorre interrogarci su ciò che siamo e ciò che diventeremo. Occorre inaugurare una riflessione seria e coraggiosa rispetto ai contenuti delle discipline, alla loro scansione, alla loro organizzazione. Una riflessione che deve vedere protagonisti gli insegnanti, che continuano ad essere emarginati da decisioni e provvedimenti che riguardano il loro lavoro. Ma non basta. Occorre sfuggire alle lusinghe di parole d'ordine come «nuovo», «moderno» a tutti i costi, attraverso le quali si pensa di liquidare a buon mercato il passato, in nome di un cambiamento che di per sé non ha però alcuna accezione necessariamente positiva. Certamente si possono mettere dei punti fermi: la laicità, la criticità dell'insegnamento nella scuola pubblica. Mai più un caso Darwin. Mai più l'antropologia cristiana come guida del percorso della conoscenza. Mai più indicazioni nazionali; ma programmi veri e decisi con competenza e legittimamente. Sì, naturalmente, al'900. Ma individuando una scansione preliminare, che eviti di trasformare l'ultimo anno di superiori in un trafelato inseguimento di quell'obiettivo. Lavorare sempre, dalla scuola elementare in poi, sulla comprensione del testo, dei testi: è la base di tutto. Allargare, alle scuole elementari, il bagaglio dei concetti che sono a capo delle varie discipline e che servano, dopo, ad apprendere i contenuti in maniera progressivamente più approfondita. Non rinunciare mai all'educazione civica. Inserire nei curricula la storia della musica, la storia delle scienze. Laboratori operativi, per i più piccoli e per i più grandi. Attivare corsi di scrittura, perché a scrivere si impara solo scrivendo. Progettare la scuola: per chi? È una società diversa dal passato, per composizione sociale, etnica, per tipologie di famiglie. E la scuola non può ignorare questo cambiamento. Una risposta è certa: una scuola per tutti. Una scuola per chi vuole porsi domande e trovare possibili risposte; per chi desideri capire; per chi sia disposto a pensare il mondo come un fatto complesso; che ammetta la cultura del dubbio; che rifiuti l'improvvisazione a buon mercato; che pensi allo studio, all'applicazione, come a valori fondanti della dignità umana; che ritenga l'incontro con l'altro un arricchimento. Una scuola per chi vuole sentirsi accolto, incluso. Una scuola per chi vuole accogliere. Ognuno a suo modo, secondo le proprie possibilità, con la propria storia, con i propri problemi; con una realtà, fuori, a volte diversa da quella che si desidererebbe. Una scuola che si sottragga progressivamente alla pericolosa deriva di considerare semplicemente «utenza» i bambini, i ragazzi e le loro famiglie. L'utente al momento non può rispondere. Il cliente ha sempre ragione. La scuola pubblica non è un centro commerciale, un mercato rionale o - peggio ancora - una sorta di villaggio vacanze, dove di volta in volta è possibile decidere l'attività da svolgere. Salvo poi protestare con la direzione - ho pagato tanto di biglietto! - se le nostre aspettative vengono deluse; anche per i motivi più imponderabili, più soggettivi, più incondivisibili. E la direzione a rincorrere clienti, perché altrimenti si perdono quote di mercato. La scuola pubblica non è la scuola privata. Insegnare ad apprendere: come? Una serie di indicatori - non solo la dispersione scolastica, ma anche la demotivazione e la fragilità di bambini e ragazzi insieme ai cambiamenti della società - indicano che le metodologie tradizionali di insegnamento in molti casi hanno perso di efficacia. Per affrontare questo cambiamento c'è da ripercorrere la storia di una categoria di lavoratori che ha perso progressivamente credito sociale e - di conseguenza - credibilità. Spesso a torto. Tra gli insegnanti c'è chi non ritiene che questo dato innegabile possa portare alla rinuncia al proprio impegno e alla propria etica professionale; e chi invece ha esaurito la propria pazienza, la disponibilità, l'entusiasmo, la voglia di mettere a disposizione le proprie competenze. Chi, infine, non le ha mai avute. Poi ci sono i precari, un problema che attende da tanto tempo una soluzione: esistenze professionali umilianti - senza diritti e con tanti doveri - la cui precarietà si ripercuote spesso fatalmente sulle vite private. Insegnare ad apprendere è difficile, oggi ancora di più. La società del successo casuale ed immeritato continua ad indicare ai ragazzi altri valori, altre mete. Un investimento concreto e consistente sulla formazione dei docenti - sul cosa e sul come insegnare; sul come rispondere all'ondata massificante dell'accesso al reality come vademecum della propria realizzazione - potrebbe contribuire alla riqualificazione di una figura professionale che per molti, per troppi, è ormai quasi il retaggio di un mondo antico, obsoleto. Popolato, a metà, di idealisti frustrati e patetici e annoiati travet. |