Insegna per 10 anni senza la laurea,

ma deve essere pagata lo stesso.

Agostino Aquilina La Tecnica della Scuola dell'8/11/2005

E’ di poche settimane fa la notizia di una docente di italiano che ha insegnato per dieci anni nelle scuole medie grazie a un certificato di laurea falso. Come garantirsi da autocertificazioni false.

 

La vicenda, che ha risvolti paradossali, riguarda una docente della provincia di Enna che è stata scoperta solo dopo due anni che era stata immessa in ruolo nel ‘96. E, soprattutto, dopo essere passata “indenne” ai controlli del concorso a cattedra del ’90, nel quale ha conseguito l’abilitazione e alla successiva iscrizione nelle graduatorie permanenti che le ha consentito per circa otto anni di ricevere svariati incarichi a tempo determinato senza che nessuno le chiedesse mai il certificato di laurea in originale.

Una volta scoperta, la docente è stata dichiarata decaduta dall'incarico, denunciata per truffa continuata e false attestazioni e, in seguito a patteggiamento, è stata condannata a sei mesi di reclusione, con la condizionale, e a 400 mila lire di multa. A distanza di sette anni dalla condanna, l’insegnante era stata citata in giudizio per un presunto danno erariale di quasi 25.000 euro, come risarcimento per gli stipendi indebitamente percepiti. Ma la Corte dei conti della Sicilia - e sta qui l’aspetto più curioso della storia - accogliendo la tesi del difensore dell’imputata, ha deliberato che la falsa professoressa non dovrà restituire nulla allo Stato, in quanto “aveva guadagnato quel denaro svolgendo diligentemente il suo lavoro”, anche se non era in possesso del titolo di laurea (sentenza n. 1969 del 07/04/05 pubblicata il 02/08/05). La sentenza, infatti, si rifà all’articolo 2126 del codice civile e ad una recente sentenza del Consiglio di Stato (la n. 5295 del 18 settembre 2003) che sanciscono “l'obbligo da parte del datore di lavoro di corrispondere retribuzione e contributi previdenziali anche di fronte a prestazioni erogate in presenza di atto nullo o annullato”.

 

Autocertificazione che passione

Fin qui la cronaca. Si tratta di un caso unico e, per certi versi curioso, o è soltanto la punta dell’iceberg di una pratica molto più diffusa e sommersa? Una condanna così lieve servirà a scoraggiare altri malintenzionati? O suona quasi come un’istigazione a provarci?

Il caso non è solo un ennesimo esempio della furbizia italica, ma assume un’importanza particolare se consideriamo il contesto dei precari e delle graduatorie permanenti.

Una semplice condanna a sei mesi e 400mila lire di multa sono veramente poca cosa di fronte ai danni diretti e indiretti che l’episodio ha procurato agli altri. Alunni e famiglie per anni sono stati a contatto con una docente che non solo non era laureata, ma non aveva sostenuto nemmeno un esame all’università. Un aspirante in graduatoria ha perso il posto di ruolo da lei occupato in modo fraudolento. E altri ancora hanno perso incarichi e supplenze annuali ripetutamente.

Se è stato così facile ingannare la pubblica amministrazione 15 anni fa, quando scanner e computer non erano ancora così diffusi ed efficienti, figuriamoci oggi che i falsi sono alla portata di tutti.

Il contesto delle graduatorie permanenti favorisce simili alzate d’ingegno.

Si tratta infatti di 500mila persone in tutta Italia. Per iscriversi alle graduatorie bisogna fornire tutti i propri dati (da quelli anagrafici a quelli dei servizi prestati) in autocertificazione, senza neanche l’obbligo dell’invio della fotocopia della carta d’identità (art. 46 del DPR n. 445 del 28/12/2000). Lo stesso vale per i titoli che danno diritto alla riserva sui posti o alla preferenza, come ad esempio le invalidità che, a rigor di legge, non potrebbero essere oggetto né di autocertificazione né di dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà, e che invece, nelle domande, si possono dichiarare indicando semplicemente gli estremi del certificato e la data.

Un ultimo, ma non per questo meno importante capitolo, riguarda la certificazione di servizio, magari per due ore settimanali e perché no, meglio se prestato in zona di montagna (altitudine minima 600 metri, così vale doppio), magari in aggiunta al servizio statale, certificazione rilasciata da alcune scuole legalmente riconosciute o paritarie (possibilmente chiuse da anni) sulla cui autenticità ci sarebbe molto da dire.

Quanti docenti riescono a farsi valutare titoli mai ottenuti e servizi mai svolti approfittando delle norme sull’autocertificazione? E quanti ancora sfruttano la carenza dei controlli a campione e, non ultimo, la fretta (in piena estate e con limitate risorse di personale e strutture) con la quale vengono predisposte le graduatorie permanenti nei Csa di tutta Italia? Se sono in aumento i ricorsi ai Tar regionali e, in genere, il contenzioso con la pubblica amministrazione, ciò non dimostra che i casi di false dichiarazioni siano in diminuzione. Gli aspiranti che intraprendono un ricorso sono solo quelli che ogni anno risultano in posizione utile per l’immissione in ruolo e che hanno quindi un interesse immediato. E in tutti gli altri casi?

 

Nessuna nostalgia della burocrazia di ieri, ma controlli sì.

I controlli a campione imposti dalla legge si fanno? In che misura?

Perché il Ministero dell’Istruzione si riserva di effettuare gli adeguati controlli sulle dichiarazioni fornite solo in occasione del conseguimento, da parte dell’aspirante, del primo rapporto di lavoro a tempo determinato? E quando non si tratta di incarichi annuali, ma di supplenze brevi, attribuite dalle singole scuole, questi controlli chi li fa?

 

Sentenza 829/05 sulla pubblicità degli atti

Intanto il Tribunale del Friuli Venezia Giulia, con sentenza depositata il 20 ottobre scorso n. 829/05, ha confermato che il docente iscritto nelle graduatorie permanenti ha diritto di accesso agli atti, compresi i documenti di autocertificazione, presentati dai colleghi che lo precedono per salvaguardare i suoi interessi, a norma della legge 241 del 1990.