La scuola in testa.
Un contributo per l'intercultura nella scuola .
di Luigi Ambrosi da
ReteScuole
del 21/11/2005
Non è semplice mettere a punto oggi un programma
interculturale per una scuola del dopo-Moratti; anche l'intercultura
deve fare i conti con tre macigni sociali che pesano sulla scuola. Un
primo macigno è l'eccessivo provincialismo che avvolge ancora la
questione dell'immigrazione in Italia, frutto anche di anni di
campagne e culture denigratorie nei confronti degli immigrati; questo
provincialismo ha contagiato anche il mondo della scuola e il punto di
vista dei docenti. Fino a che la società e le Istituzioni non
riconosceranno i migranti come soggetti sociali portatori di diritti e
cittadini come tutti gli italiani, la scuola non riuscirà
autonomamente ad essere all'altezza dei compiti.
Non si è ancora voluto acquisire che in Italia vi sono tre milioni di
emigrati, che lavorano e concorrono alla produzione di reddito e
ricchezza sociale, che sono indispensabili alla nostra società; è una
realtà, come si dice, strutturale. Anche tra i docenti questa
consapevolezza non è ancora acquisita, ma si mescola a pregiudizi ed
atteggiamenti superficiali, prodotti sicuramente anche dal clima
esterno al mondo della scuola. In questo campo i portatori del nuovo
sono quasi unicamente i bambini e la loro cultura dell'accoglienza,
dell'uguaglianza, della curiosità del conoscere.
Un secondo macigno è dato da un clima di declino culturale, di
conoscenze, interessi, attenzioni che pervade la società ed il mondo
della scuola; un declino che sta assumendo accelerazioni fino a
denotarsi come un vero e proprio crollo culturale: del resto che
potevamo aspettarci da oltre un decennio di full immersion nel calcio,
nei reality, nell'illusione venduta a piene mani di soldi facili
diventando calciatori o veline? Privati di ogni potere, di ogni
possibilità di essere soggetti di trasformazione, privati della
dimensione sociale di utilità e di impegno, e quindi di interessi
anche culturali conseguenti, assistiamo a questo forte crollo di
interesse culturale anche nella scuola. Mi sembra che quest'ultimo
elemento accomuni l 'esperienza di tutti i docenti, in ogni ordine di
scuola. Ad esso dobbiamo aggiungere le politiche culturali
neoconservatrici della Moratti, che si richiamano addirittura ai
periodi culturali precedenti l'illuminismo, vedi l'esclusione dai
programmi scolastici delle teorie dell'evoluzione darwiniane ecc.
(quando dovremo dire agli alunni che la Terra è piatta, come scrive la
Bibbia?). Certo ci sarà anche qualche nostra difficoltà ad intuire i
nuovi modi giovanili di accesso alle conoscenze ed a quali nuove
gerarchie di conoscenze,ma non solo.
Inizialmente qualcuno ha tentato di motivare questo declino accelerato
dandone colpa, come al solito, alla presenza di alunni stranieri che
abbassavano gli standard minimi, ma ormai anche gli insegnanti con più
pregiudizi cominciano a riconoscere che quanto sta accadendo ha radici
più profonde e riguarda prima di tutto il "fronte" italiano. Anzi.
Se ne conclude che solo un forte impegno "sociale" di un nuovo governo
potrebbe forse contrastare queste tendenze. Forse.
Un terzo macigno è la forte demotivazione che ha pervaso gli
insegnanti, che hanno avuto modo di riscontrare, oltre ad un
peggioramento delle proprie condizioni economiche, giuridiche e nel
lavoro quotidiano, di essere considerati come soggetti assolutamente
passivi nella trasformazione morattiana della scuola.
Parlare di intercultura oggi è possibile solo tenendo conto di questi
macigni che gravano sul mondo della scuola. Per quanto riguarda le
richieste concrete, la strada più semplice sembrerebbe un "ritorno al
passato", il ripristino adeguato di un grande numero di facilitatori
linguistici: uno per plesso per le scuole con oltre il 10 % di alunni
di famiglie di origine straniera. La figura del facilitatore
linguistico andrebbe accoppiata a quella del mediatore culturale,
arruolato tra insegnanti e/o tra elementi indicati dalle Associazioni
o Consolati di comunità straniere (come genericamente prevedeva la
legge 40/98 della Turco).
Le programmazioni di classe dovrebbero comprendere la conoscenza di
elementi delle principali culture del mondo, al fine di arricchire i
contenuti culturali fuori da una logica euro/occidentale-centrica e di
riconoscere le richieste culturali delle nuove utenze immigrate.
Dovrebbe essere applicata la convenzione dei diritti dei bambini, che
è legge di Stato, e che prevede il diritto alla salvaguardia di lingue
e culture d'origine.
Dovrebbe acquisire un maggior rilievo la Consulta Nazionale
Interculturale, prima soppressa e poi mantenuta ad uno stadio
vegetativo dalla Moratti.
Coordinamenti cittadini di docenti operanti nell'intercultura e
Associazioni delle Comunità Straniere e Rappresentanze Consolari
potrebbero promuovere.
eventi cittadini in occasione delle principali festività
interculturali (Capodanno cinese, islamico, feste amerinde, africane
ecc.; festival musicali e teatrali interetnici per le scolaresche,
laboratori nelle scuole di calligrafia cinese o araba, di costruzione
di maschere africane o di tessitura Amerinda .) Ma questo "ritorno al
passato" all'esperienza milanese del Progetto "Il mondo in un piatto
di feste" richiede innanzitutto ci sia la volontà e la possibilità di
investire risorse per nuovi organici, nuovi laboratori ecc. Dipende
anche dai costi che la Società è disposta a sostenere per favorire lo
scambio etnico-culturale ed un reale confronto-incontro tra culture o,
al contrario, quanto sia disposta a rischiare nella non-relazione,
come l'esperienza francese ed inglese hanno messo ampiamente in luce.
Ma ho l'impressione che questo "ritorno al passato" sia ormai superato
o quantomeno insufficiente. I fatti della scuola di via Quaranta
introducono un elemento di novità, di modifica dell'ottica con cui
pensare e progettare l'intercultura nella scuola pubblica.
Intanto il quesito principale, da porsi ai docenti: vogliamo che i
figli di immigrati frequentino la scuola pubblica o che si
costruiscano scuole etniche, private, parificate o altro? Non ci
devono essere ambiguità. Penso ad una dirigente scolastica che
desiderava l'allontanamento degli alunni islamici dalla scuola e che
poi , promossa ispettrice, è stata mandata a cercare di convincere le
famiglie della scuola di via Quaranta ad iscrivere i figli nelle
scuole pubbliche. E' indispensabile la chiarezza su questo tema.
Se preferiamo che i figli di migranti frequentino le scuole etniche,
mettiamo in conto la progressiva riduzione del numero di alunni,
classi e posti di lavoro nelle scuole pubbliche; mettiamo in conto di
prevedere un territorio, un quartiere dove i figli di migranti non si
sono mai relazionati con gli italiani, adulti e minori: quanta
diffidenza e quante tensioni possibili.. Penso alle vie del mio
quartiere con la "banda" giovanile di italiani, di sudamericani, di
cinesi, di arabi, di senegalesi.mai abituati a relazionarsi tra loro.
Non credo sia da augurarsi una città così: troppo pericolosa, e quanto
si perderebbe in nuove conoscenze?
Se non vogliamo un presente/futuro così, dobbiamo ripensare una scuola
pubblica che accolga, che addirittura attragga i figli di migranti,
che sia abbastanza adeguata ai cambiamenti sociali da essere in grado
di rispondere alle istanze delle nuove utenze. Utenze che,
ricordiamolo, con il loro lavoro e con le tasse finanziano la scuola
pubblica (e anche quella privata). Se poi la scuola pubblica saprà non
solo rispondere alle nuove istanze ma anche farne occasione di
arricchimento per tutti gli alunni, meglio ancora: avremmo una scuola
all'altezza dei tempi che sa produrre anche mediazione culturale, che
produrrebbe valore aggiunto culturale per tutti.
Attualmente Direzione Scolastica ed Istituzioni stanno sostenendo con
arroganza che gli alunni stranieri devono frequentare la scuola
pubblica: bene, che la scuola pubblica si attrezzi. Perché ora i figli
di immigrati, privi di facilitatori linguistici e di risorse adeguate,
giacciono in stato di abbandono più o meno totale nella nostra scuola
pubblica. Perché ora i figli di immigrati, privi di mediatori
culturali, stanno subendo la totale cancellazione della loro lingua e
cultura d'origine, nonostante le leggi a salvaguardia della stessa.
Salvaguardia che permetterebbe tra l'altro la creazione di altro
valore aggiunto: pensiamo ad un nuovo cittadino italiano, figlio di
migranti, che oltre la lingua italiana conosce la propria lingua
d'origine, il cinese, l'arabo, l'ispanico. è una ricchezza per tutta
la società.
Cosa può voler dire per la scuola pubblica attrezzarsi alla nuova
utenza e valorizzarla per tutti?
Pensando alla scuola dell'obbligo, in particolare alla scuola
primaria, riconoscere il diritto alla lingua e cultura d'origine vuol
dire innanzitutto riconoscerle spazi in orario scolastico ed anche
extra-scolastico; per es. destinare il venerdì pomeriggio per corsi di
lingua e cultura d'origine, corsi ai quali potrebbero partecipare
facoltativamente anche alunni italiani. Corsi che potrebbero diventare
laboratori di arricchimento culturale per tutti. Si potrebbe pensare
al venerdì destinato all'intercultura, dove in tutte le classi si
conoscono le "culture altre" trasformandosi in laboratori di
mediazione culturale. Le scuole, con opportuni finanziamenti,
potrebbero anche aprirsi al sabato mattina per permettere ai
differenti gruppi "etnici" di approfondire le proprie culture. E qui
si potrebbe aprire anche il discorso sulle ore di religione islamica o
altre religioni non cattoliche: che sia un diritto fruirne nella
scuola pubblica è evidente, fintantoché la religione cattolica viene
insegnata in orario scolastico. E' una questione di par condicio che
riguarda anche tutti quegli italiani che hanno abbracciato la
religione islamica; è una questione di "o tutti o nessuno".
Rimane comunque aperta a tutte le soluzioni la domanda: come adeguare
la scuola pubblica ai nuovi tre milioni di cittadini italiani?
Senza dimenticare i tre macigni.