Dietro le riforme Fillon, Arena, Moratti... la mano della Commissione europea?

"Educazione e formazione 2010":

Come M.me Redin ha accellerato il passo.

 

di Nico Hirtt da l'école democratique,7/3/2005

 pubblicato su Retescuole il 21/3/2005

 

Per tagliar corto sulle proteste dei liceali, il ministro francese dell’Educazione, François Fillon, si è visto pressato dal Presidente della Repubblica ad accellerare il suo progetto di riforma. Contemporaneamente, nel Belgio francofono, il ministro Arena afferma di volere varare il suo "Contratto strategico per l’educazione" prima delle vacanze, a dispetto d’una viva opposizione. In Italia, il governo Berlusconi intende anche lui andare avanti con l’applicazione del "piano Moratti ", per quanto estremamente contestato dagli insegnanti, dagli studenti e dai genitori. In Inghilterra, il governo ha proposto di aumentare il bilancio dell’Educazione al 5,6% del PIL, in cambio di una attuazione rapida del piano “Education and Skills : Investment for Reform”. In Germania, il governo federale ed i Länder hanno appena organizzato, con procedura d’urgenza, un programma di valutazione dei sistemi educativi, destinato a coordinare le politiche regionali. In Danimarca, una riforma dell’insegnamento secondario superiore è previsto per l’anno in corso.

L'elenco é ancora lungo...

Qual’è la mosca che ha pizzicato i ministri europei dell’Educazione? Si chiama Commissione europea. Infatti, il Commissario europeo per l’educazione (fino a poco tempo fa la signora Viviane Reding, sostituita oggi da Jan Figel), ha ottenuto recentemente un potere immenso: quello di poter dettare agli stati membri il contenuto ed i tempi delle riforme dei loro sistemi d’istruzione e di orientarli secondo un obiettivo unico: mettere la scuola europea al servizio dell’economia europea, come prevede la strategia detta "di Lisbona".

Poco più di un anno fa, l'11 novembre 2003, la Commissione europea pubblicava una comunicazione di importanza capitale, che non ha ricevuto all'epoca tutta l’attenzione che meritava: "Educazione e formazione 2010: l’urgenza delle riforme per attuare con successo la strategia di Lisbona".

In questo documento, la signora Reding s’erge a giudice delle politiche educative nazionali. Si dice soddisfatta perché "sforzi siano fatti in tutti i paesi europei per adattare i sistemi d’educazione e di formazione alla società e all’economia della conoscenza", ma, aggiunge, "le riforme intraprese non sono all'altezza delle sfide ed il loro ritmo attuale non permetterà all’Unione di raggiungere gli obiettivi che si era prefissata".

Al termine d’un lungo atto d'accusa, in gran parte allarmista, il testo della Commissione comincia ad elencare quelle che dovrebbero essere le priorità dei governi per gli anni successivi.

La Commissione "propone" anche meccanismi di controllo allo scopo di assicurarsi che ciascuno rispetti queste priorità. "In caso contrario", dice la Commissione, "è prevedibile che lo scarto tra l’Unione ed i suoi principali concorrenti crescerà e, più grave ancora, che il successo della strategia di Lisbona si troverà nel complesso fortemente compromesso".

Prima di entrare nel dettaglio della nota della signora Reding, ricordiamo che cos’è questa "strategia di Lisbona" che costituisce ormai il riferimento inevitabile di ogni politica educativa in Europa.

 

Lisbona, Stoccolma, Barcellona

Nel marzo 2000, la riunione del Consiglio europeo di Lisbona, constatando che l’Unione europea si trovava "di fronte ad un profondo sconvolgimento indotto dalla mondializzazione e a causa delle sfide inerenti ad una nuova economia fondata sulla conoscenza", aveva preso in considerazione un obiettivo strategico forte: l’Unione doveva, da li al 2010, "diventare l’economia della conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo". Il Consiglio sottolineava che questi cambiamenti chiamavano non soltanto "ad una trasformazione radicale dell'economia europea", ma anche "ad un programma ambizioso al fine di modernizzare i sistemi della sicurezza sociale e dell'educazione".

Come ricosciuto dalla Commissione europea stessa nella sua comunicazione del 2003, decideva la totale strumentalizzazione dell’insegnamento ponendolo al servizio della concorrenza economica: "Mai prima di allora il Consiglio europeo aveva accordato tale riconoscimento al ruolo svolto dai sistemi di educazione e di formazione nella strategia economica e sociale nel futuro dell'Unione".

 

Dunque occorreva tradurre gli obiettivi generali di Lisbona in strategie coerenti in materia di politica educativa.

A questo si sono attenuti i ministri dell’educazione in occasione dei consigli di Stoccolma (marzo 2001) e di Barcellona (marzo 2002). A Stoccolma, ministri decisero di prendere in considerazione tre obiettivi strategici :

"Migliorare la qualità e l’efficacia dei sistemi d’educazione e di formazione", "facilitare l’accesso di tutti ai sistemi d’educazione e di formazione " ed "aprire al mondo esterno i sistemi d’educazione e di formazione".

Vedremo più avanti ciò che significano, qui, le parole "qualità" ed "apertura".

A Barcellona, questi tre obiettivi strategici furono tradotti in tredici "obiettivi concreti" come: "sviluppare le competenze della società della conoscenza", "aumentare gli investimenti nel capitale umano", "rafforzare i legami con il mondo del lavoro" o ancora "sviluppare lo spirito d'impresa". Questi obiettivi comuni furono riassunti in un documento strategico: "Educazione e formazione in Europa: sistemi diversi, obiettivi condivisi", pubblicato nel 2002. Infine, nel maggio 2003, la Commissione fece adottare cinque criteri di valutazione o "benchmarks" per giudicare l'attuazione della strategia comune.

 

La scuola al servizio dell'economia

Il sistema educativo delle società a capitalismo avanzato affronta ormai una contraddizione grave: come conciliare la modernizzazione dell'insegnamento al servizio dell'economia con le costrizioni di bilancio sempre più restrittive? La risposta a questo dilemma è nel cuore della strategia elaborata dopo Lisbona. Consiste nell’adattare l'insegnamento ad un ambiente economico molto imprevedibile e ad un mercato del lavoro dove i livelli di qualificazione tendono maggiormente a tendersi, a polarizzarsi, ad alzarsi.

Se la "società della conoscenza" richiede un numero sempre crescente di specialisti a vari livelli - formazione professionale, tecnica e superiore - in alcuni settori ben definiti, il mercato del lavoro crea anche, paradossalmente, sempre più impieghi con un livello molto basso di qualificazione. In Francia, dopo una caduta regolare da molti decenni, il numero delle occupazioni "non qualificate " ha ricominciato ad aumentare, passando da 4,3 a 5 milioni nel corso degli ultimi dieci anni (indagine occupazione 1982-2001, INSEE). Questi lavoratori detti "non qualificati " devono tuttavia disporre d’un grande numero di competenze: sapere leggere, scrivere, calcolare, servirsi d’un manuale o di Internet, sapere pronunciare alcune frasi standard in due o tre lingue europee di cui, obbligatoriamente, l’Inglese. Da qui la necessità di precisare le "competenze di base " di cui dovranno essere portatori.

In questo contesto, la visione classica della "democratizzazione" - più esattamente della massificazione - dell'insegnamento, pensata come un innalzamento generale e continuo dell’accesso ai sapeti per tutti, può essere sostituita oggi da una visione duale e flessibile: rafforzare e specializzare le formazioni superiori o tecniche degli uni, pur abbassando la formazione comune al livello di uno standard minimale di vaghe competenze "sociali " e "trasversali ". Quanto all'aggiornamento delle conoscenze e delle competenze dei lavoratori, per garantire il mantenimento della loro produttività in un ambiente tecnico ed economico in evoluzione rapida, questo sarà compito, non più del sistema educativo formale, ma della formazione "nel corso della vita".

Certamente, non ci sarà occupazione per tutti, ma, garantendo la capacità di impiego di tutti in questi posti di lavoro precari e flessibili, si aumenta la riserva d'assunzione di mano d’opera e si garantisce così il mantenimento d’une pressione costante sui salari.

 

Ecco come il documento "Educazione e formazione in Europa" definisce le competenze necessarie nella pretesa "società della conoscenza": "non soltanto sapere contare, leggere e scrivere, ma anche avere delle competenze di base in scienze, lingue straniere, l’utilizzo del TIC e delle tecnologie, la capacità di acquisire metodi di apprendimento, le competenze che facilitano la vita in società, lo spirito d’impresa e ciò che potrebbe essere definito cultura generale". Osserviamo in proposito che altrove non si parla più di "ciò che potrebbe essere definito cultura generale". Questa "competenza" sembra bene apparire là soltanto come pro forma. In compenso, si precisa accuratamente ciò che si intende per "spirito d’impresa" e come giungervi. L’educazione e la formazione dovrebbero, ci dicono, " far comprendere il valore dell’impresa al senso più ampio possibile del termine, cioé la spinta a risolvere i problemi, l’investimento in termini di tempo e di sforzi in vista del successo, la volontà di assumere iniziative e rischi ragionevoli".

A tale scopo, uno dei mezzi raccomandati è quello di rafforzare i legami tra la scuola ed il mondo dell’impresa. Infatti, la Commissione ritiene che i sistemi di educazione e di formazione in Europa"siano troppo spesso ripiegati su essi stessi" e che abbiano "bisogno di questa collaborazione per diventare essi stessi delle organizzazioni di formazione, restare aperti alle evoluzioni, ai contributi, alle idee ed ai talenti dall’esterno, e conservare - o acquisire - la loro utilità di fronte alle necessità reali delle persone che si formano in esse". É questa constatazione, questo deficit di adattabilità dell'insegnamento di fronte alle domande rapidamente mutevoli dell’ambiente economico, che giustifica un discorso che raccomanda sempre più decentramento, deregulation e autonomai: "istituzioni più aperte e più ricettive saranno più in grado di stimolare lo spirito d’impresa e d’iniziativa dei quail gli studenti, le persone in formazione ed i laureati hanno bisogno".

Sul piano degli investimenti da riservare in vista del consegumento degli obiettivi fissati a Lisbona, la Commissione spiega si tratta da una parte di assicurare "una distribuzione equa ed efficace dalle risorse disponibili " e dall’altra parte di sviluppare "il potenziale degli interlocutori tra i settori pubblici e privati ".

 

La signora Reding si arrabbia!

Questo programma, tutti i ministri l’hanno sottoscritto. E possiamo, in Francia, in Belgio, in Italia ed altrove, testimoniare gli sforzi che hanno fatto per applicarlo. Tuttavia, nella comunicazione del novembre 2003, la Commissione si irrita ed enumera una lunga serie di critiche all’indirizzo dei ministri dell’educazione che, a suo giudizio, fanno molto male il loro lavoro. Passiamo brevemente in rivista le principali critiche.

1.      La commissione si rammarica che non ci sia "nessun segno di aumento sostanziale degli investimenti totali (pubblici e privati) nelle risorse umane". Constatando che l’investimento pubblico non può più aumentare e che anzi è diminuito nella maggior parte degli Stati membri nel corso del periodo 1995-2000, la Commissione conclude che c’è un "sotto investimento del settore privato, in particolare per l’insegnamento superiore e per la formazione continua". Rispetto all’Unione, l’investimento privato è cinque volte più importante negli Stati Uniti (2.2% del PIL contro 0.4%) e tre volte tanto in Giappone (1.2%).

2.      La Commissione ritiene "insufficienti", gli sforzi realizzati in vista di rafforzare l’accesso alle "competenze di base". Essa si inquieta in particolare per quanto concerne l’accesso alle lingue straniere. Nonostante un aumento leggero - di 1.2 lingue straniere per allievo all'inizio degli anni 90, si è passati ad una media da 1.5 nel 2000 - si resta "molto lontano dall’obiettivo fissato dal Consiglio europeo di Barcellona ": garantire che tutti gli allievi/studenti imparino almeno di due lingue straniere.

3.      La Commissione critica anche i tassi elevati abbandono scolastico dai costi individuali, sociali ed economici elevati". Ricorda che l’obiettivo è di riportare dal 20% al 10% (nel 2010) il tasso di studenti che abbandonano senza diploma. Quest'obiettivo può sembrare generoso, ma non dimentichiamo che esso implica, nelle aspirazioni dei dirigenti europei, di abbasssare le esigenze dell'insegnamento obbligatorio al livello delle sole "competenze di base" indicate sopra.

4.      La formazione professionale resta, agli occhi della Commissione, troppo poco adattata alle esigenze attuali dell'economia. "Pochi paesi si sono realmente impegnati a fare dell’indirizzo professionale e di apprendimento in impresa un'alternativa altrettanto attraente quanto l’insegnamento generale". Da allora, "numerosi settori devono fare fronte ad una penuria di mano opera qualificata". Occorre qui sfumare questo concetto di "penuria". Significa generalmente, non una penuria reale, ma piuttosto un tasso di disoccupazione settoriale inferiore al tasso di disoccupazione a medio termine, cosa che tende a limitare la capacità dei datori di lavoro di fare pressione sui salari e le condizioni di lavoro e, di conseguenza, comporta una perdita relativa di competitività rispetto ad altri settori, dotati di una riserva d'assunzione più vasta.

5.      All’altro estremo della gerarchia delle occupazioni, la Commissione ritiene che l’insegnamento superiore europeo "non è sufficientemente competitivo". Ricorda a tale riguardo che "il posto dell'insegnamento superiore nella strategia globale di Lisbona supera di gran lunga il programma di riforme di strutture iniziato dalla dichiarazione di Bologna". Le questioni chiave, per garantire alle università europee il loro posto nel grande mercato dell'insegnamento superiore, che prende forma all’orizzonte 2010 (nel quadro dell’AGCS), sono "il finanziamento, la diversità delle istituzioni nelle loro funzioni e le loro priorità, la messa in atto dei poli d’eccellenza, l’attrazione delle carriere o il lavoro in rete". Il segno che l’insegnamento superiore europeo non è ancora pronto per costituire un vasto mercato, è, ritiene la Commissione, il fatto che la mobilità degli studenti resta debole. Riguarda annualmente soltanto 120.000 studenti ERASMUS, cioè 0,8% di totale effettivo.

6.      La Commissione stigmatizza infine la partecipazione troppo scarsa dei cittadini europei alle iniziative di formazione nel corso della vita, finalizzate a garantire il mantenimento della loro produttività. Le lacune in questo settore sono la conseguenza, agli occhi della signora Reding, di una "visione troppo limitata alle esigenze della possibilità d’impiego" o "d’un accento esclusivamente posto sul recupero di quelli che hanno fallito nell’educazione iniziale". Questi elementi si giustificano, secondo la Commissione, ma non possono costituire da soli una strategia d’educazione e di formazione nel corso della vita.

 

La ricreazione è finita...

Una volta schiaffata questa constatazione demoralizzante sotto il naso dei cattivi scolari/ministri, la signora Reding, da buona maestrina, passa alla fase del’ "esame di riparazione". Dunque non soltanto preciserà ai “somari” ciò che essa si aspetta da loro ma soprattutto, promette loro di essere ormai molto più rigorosa e di controllare tutto ciò molto da vicino.
Se la didattica moderna raccomanda "di mettere lo studente e non il programma al centro dell’attenzione", i metodi pedagogici della Commissione e della maestra Reding, al contrario, diventano molto più dirigistici. Certamente, si ammette ancora che "le priorità che guidano le riforme e l’azione sono definite da ogni paese, in funzione di condizioni e di costrizioni che gli sono proprie", ma "è essenziale che questa riflessione e queste scelte nazionali tengano conto ormai interamente degli obiettivi comuni fissati a livello europeo nel quadro della strategia di Lisbona". La Commissione chiede dunque che ogni paese "faccia conoscere le sue priorità politiche d’investimento e di riforma nel campo dell’educazione e della formazione a breve e a medio termine, come pure il contributo al conseguimento degli obiettivi europei per il 2010 che ci si aspetta". Quest'esercizio dovrà in seguito permettere d’identificare "i settori chiave che condizionano più direttamente il successo di ogni paese e quella dei suoi cittadini nell’economia e nella società della conoscenza e quelli che richiedono sforzi di riforma e d’investimento più sostenuti". In altre parole: ogni paese dovrà essere in grado di giustificare, dinanzi alla signora Reding, come le riforme che esso intraprende nel settore dell'insegnamento rispondano correttamente alle strategie europee definite a partire da Lisbona.

Per giudicare il lavoro dell'ogni ministro, si ricorrerà a ciò che le scienze dell’educazione chiamano "valutazione esterna": un "gruppo di alto livello" sarà incaricato "di fare il punto delle politiche nazionali (...) e definire i settori di cooperazione più urgenti".

In risposta ai dibattiti ricorrenti, in vari paesi, sul modo di conciliare le riforme necessarie con gli imperativi di bilancio attuali, la Commissione martella, con rinnovata chiarezza, l’orientamento da seguire. Da una parte, essa dice, si può considerare "il riorientamento verso l’educazione e la formazione di risorse esistenti destinate ad altri settori dove il rendimento economico e sociale è più limitato" (la cultura? l’insegnamento a distanza? le cure sanitarie?). Ma soprattutto, sulla base della constatazione che "il settore pubblico non può da solo sopportare il peso finanziario dell'attuazione degli obiettivi fissati a Lisbona", toccherà dunque al settore privato "assumere una responsabilità più grande a livello degli investimenti necessari in materia di educazione". Ritiene di conseguenza "necessarie" misure di incentivazione per un maggiore investimento da parte delle imprese e dei privati.

In previsione di sviluppare l’educazione e la formazione nel corso della vita, la Commissione esige "riforme radicali e l'attuazione di strategie nazionali veramente globali, coerenti e concertate, in armonia con il contesto europeo". E per forzare i più mediocri fra ministri a dare prova di diligenza, la signora Reding pone chiari picchetti: "al più tardi nel 2005, tutti i paesi dovrebbero avere definito tale strategia, implicando tutti i partner interessati, ed un piano d’azione coerente per la sua attuazione che riguarda tutte le dimensioni dei sistemi (formali e non formali)". Non è più tempo di lasciare la briglia lunga sul collo dei governi nazionali. Si svilupperanno e si faranno adottare "riferimenti comuni (...) per molti aspetti importanti dell’educazione e della formazione nel corso della vita". Riguarderanno: i principi di convalida delle competenze non formali; la definizione delle competenze chiave "che ciascuno dovrebbe acquisire"; la definizione delle competenze e qualificazioni necessarie per gli insegnanti e per gli istruttori "per assumere i loro nuovi ruoli"; i principi di base da rispettare "per una mobilità di qualità". Questi riferimenti comuni dovrebbero essere sviluppati nel 2005 ed il "loro utilizzo sistematico in tutti i paesi costituire una priorità".

Per quanto attiene più precisamente alla base comune di competenze per l’insegnamento obbligatorio, la Commissione raccomanda la definizione, nel 2005, "di un riferimento comunitario per un profilo di conoscenze e di competenze europee da acquisire da parte degli allievi" e questo "permetterebbe di sostenere e facilitare l’azione nazionale in materia". É certo che se Thelot, Fillon o Arena possono dire, a proposito della loro visioni minimaliste della formazione obbligatoria a livello dela scuola media inferiore o superiore, "non abbiamo scelta, c’è un accordo europeo", ciò faciliterà loro in gran parte il compito sul piano politico...

Anche in materia d'assunzione e di formazione dei professori, l’Europa intende dettare la sua legge agli stati membri. Questi dovranno "adottare misure per attirare verso il lavoro di insegnante e d'istruttore i migliori talenti e conservarli, anche con l’incoraggiamento e la ricompensa delle buone prestazioni" (intendete : il pagamento al merito e lo smantellamento dei diritti statutari che garantiscono ad esempio, oggi, che un professore di lingua nazionale – in eccedenza sul mercato del lavoro - sarà pagato quanto un matematico che è una merce rara). Ma soprattutto, questi nuovi insegnanti, occorrerà "prepararli ai loro nuovi ruoli nella società della conoscenza e nella trasformazione dei sistemi di educazione e di formazione". A tale scopo, ogni paese dovrà organizzare, nel 2005, "un piano d’azione in materia di formazione continua del personale educativo, piano che deve avere un impatto positivo sull’evoluzione delle carriere".

Trattandosi di formazioni tecniche, professionali ed universitarie, la Commissione richiede la creazione d’un "quadro europeo che funga da riferimento comune per il riconoscimento delle qualificazioni" e "la creazione di una piattaforma di verifica della qualità o di accreditamento nell’insegnamento superiore (in collegamento con il processo di Bologna) ". La Commissione dice "di essere determinata a mettere tutto in opera per farli realizzare entro il 2005" ed si aspetta che gli Stati membri facciano altrettanto.

 

Conclusione

Riassumendo, la Commissione impone che il progetto "educazione e formazione in Europa" diventi "nei fatti, un elemento centrale nella formulazione delle politiche nazionali". Non è più il momento, a questo riguardo, di dare fiducia ai cattivi scolari/ministri, bloccati di fronte a resistenze giudicate corporativiste, tradizioni nazionali inevitabilmente obsolete. Dato il poco di tempo che resta per agire entro il 2010, la Commissione si arroga ormai il diritto "di assicurare una procedura più strutturata e più sistematica dei progressi realizzati". Gli Stati membri dovranno così fornire ogni anno alla Commissione "una relazione consolidata sull’insieme della loro azione di educazione e di formazione che contribuisca alla strategia di Lisbona".

Nel momento in cui i paesi europei si apprestano a ratificare - con o senza costituzione non concederà loro alcun potere nuovo - di fronte ad una Commissione europea sempre più potente, chiusa nel dogma inamovibile e fondante dell’Europa attuale: “Ciò che è buono per i mercati e per le imprese è buono per tutti”.