L'esclusione e la scuola.

Considerazioni a partire da una scarpa.

 di Pablo Gentili da Proteo Fare Sapere dell'11/3/2005

 

Una scarpa perduta

   Quella mattina, decisi di uscire per qualche acquisto con Matteo, mio figlio piccolo, che dopo alcuni isolati, già dormiva tranquillamente nel passeggino. Mi accorsi che una delle sue scarpe era slacciata e stava quasi cadendo. Decisi di toglierla per evitare che si perdesse. Pochi secondi dopo un’elegante signora mi avvertì: "Attenzione! Suo figlio ha perso una scarpina". "Grazie! – risposi – ma gliel’ho tolta io stesso". Alcuni metri più in là il portinaio di un edificio, un signore dal sorriso timido e di poche parole, mosse la sua testa in direzione del piede di Matteo, dicendo con un tono grave: "La scarpa". Alzai il pollice in segno di ringraziamento e continuai il mio cammino. Prima di arrivare al supermercato, svoltando all'angolo fra l’Avenida Nossa Senhora de Copacabana e Av. Raínha Elisabeth, un surfista, ugualmente preoccupato del destino della scarpa di Matteo, disse: "Guarda, tuo figlio ha perso una scarpa". Nel supermercato, le persone continuarono a richiamare la mia attenzione. Arrivando al nostro appartamento, João, il portiere, con l’abituale teatralità gridò svegliando il piccolo: "Matteo! Tuo padre ti ha perso la scarpa". Cominciai a sentirmi a disagio: "Perché il piede scalzo di un bambino della classe media è motivo di attenzione in una città con centinaia di bambini brutalmente scalzi?" La domanda sembrava banale. Tuttavia, in breve, mi resi conto che conteneva alcune delle questioni centrali. Mentre è "anormale" che un bambino della classe media vada scalzo, è assolutamente "normale" che centinaia di bambini di strada camminino senza scarpe, vagando per le vie di Copacabana, chiedendo l’elemosina.
   L’anormalità rende gli avvenimenti visibili, nello stesso modo in cui la normalità di solito ha la capacità di occultarli. Il normale si trasforma in quotidiano. E la visibilità del quotidiano svanisce, come prodotto della sua tendenziale normalizzazione. Senza giri di parole, ciò che voglio affermare è che, oggi, nelle nostre società dualiste, l’esclusione è invisibile ai nostri occhi. L’invisibilità è certamente il segno più visibile dei processi di esclusione in questo millennio che comincia. Di fatto l’esclusione ed i suoi effetti sono lì, evidenze crudeli e brutali mostrate agli angoli delle strade, commentate dai giornali, esibite sugli schermi; tuttavia hanno perso la capacità di produrre stupore e indignazione in buona parte della società. Negli "altri" e in "noi altri". La selettività dello sguardo quotidiano è implacabile: due piedi scalzi non sono due piedi scalzi. Uno è un piede che ha perso una scarpa. L’altro è un piede che semplicemente non esiste, è il piede di nessuno.
    L’esclusione si normalizza e, quando questo avviene, finisce per essere naturale. Cessa di essere un "problema" per essere nient'altro che un "fatto". Nel frattempo la paura che ci porta a temere l’escusione, si allea alla dimenticanza e al silenzio.

Lo sguardo che normalizza

   La normalizzazione dell’esclusione comincia quando scopriamo che, in fin dei conti, in buona parte del mondo ci sono più esclusi che inclusi. Come afferma il sociologo francese Robert Castel (1997), possiamo riconoscere tre forme qualitativamente diverse di esclusione: l’eliminazione completa di una comunità attraverso pratiche di espulsione o sterminio; il meccanismo di confinamento o reclusione (è il destino ieri dei lebbrosi e oggi di bambini delinquenti, indigenti, pazzi, "portatori di handicap", vecchi nelle case geriatriche e prigionieri); la segregazione includente.
 
Questa terza modalità di pratica escludente consiste nell’attribuire uno "stato speciale" a una determinata classe di individui, i quali non sono né sterminati fisicamente, né rinchiusi in istituzioni. È il caso dei senza tetto, dei "non occupabili", dei bambini che vagano abbandonati nelle nostre città, di una buona parte della popolazione nera e degli immigrati clandestini. Questa forma di esclusione significa che determinati individui sono dotati di requisiti per convivere con gli inclusi, ma in una condizione di inferiorità. Sono i sub-cittadini, quelli che partecipano alla vita sociale senza i diritti di chi possiede le qualità necessarie per una vita attiva e piena nelle dinamiche della comunità. Se le due prime forme di esclusione non sono sparite, la terza è andata crescendo e allargandosi con forza temeraria. Potremmo dire che, nelle nostre società frammentate, è questo il modo "normale" di escludere. Ed essendo "normale" diventa invisibile.
   Nella storia della scarpa di Matteo, ciò che distingue due piedi scalzi è il diverso contenuto morale attribuito alle rispettive assenze. Gli avvertimenti (solidali o biasimevoli) circa la supposta perdita della scarpina, si contrappongono all’assenza di avvertimenti (solidali o indignati) circa la povertà per la quale un piede scalzo è, lungi da un disguido, il marchio inoccultabile della relazione sociale che ne fa un "minore abbandonato". Tutto questo ha a che fare con la scuola ?

La scuola delle molte esclusioni

   L’utile categorizzazione offerta da Robert Castel permette di valutare meglio una delle poche conquiste che, in materia di politica educativa, i governi neoliberali e latino-americani di solito offrono ai loro critici: il progresso dei processi di universalizzazione della scolarità di base, la quale indicherebbe – secondo quanto affermano – una diminuzione progressiva (e tendenzialmente totale) degli indici di esclusione educativa. Risulta però evidente che la crescita del tasso di scolarizzazione, l’aumento degli anni dell'obbligo scolastico (da 8 negli anni '80, a 10 alla fine degli anni '90), la diminuzione dell’indice di analfabetismo assoluto e del tasso di abbandono e ripetizione scolastica non sono stati merito esclusivo dei governi neoliberali e conservatori al potere in gran parte dell’America Latina negli ultimi vent’anni. Sono stati piuttosto frutto di azioni di rivendicazione; così come i processi di democratizzazione, più che generosi regali, sono stati il prodotto di resistenze sociali dei settori popolari con le loro richieste e strategie di lotta.
   La questione, a questo riguardo, è complessa. Qualsiasi celebrazione frettolosa può nascondere alcune delle tendenze che hanno accompagnato in modo perverso la dinamica democratizzatrice. Di fatto, dai processi di colonizzazione in poi e, specialmente, nel contesto della complessa costituzione storica degli stati nazionali latinoamericani, i sistemi educativi si sono sviluppati a "velocità diverse". Questa asincronia nei ritmi di sviluppo scolastico non solo segnò alcune delle evidenti differenze che esistono tra i sistemi educativi latinoamericani, ma ha generato anche una serie di differenze interne ai sistemi scolastici di ciascun paese. In altre parole, la proclamata unità dei sistemi nazionali di educazione fu sempre, nell’America Latina, molto più un'aspirazione che non una realtà. La regola è stata, quasi sempre, quella di offrire educazione povera ai poveri, dando solo alle élite la possibilità di accedere ad un’educazione di eccellenza.
   In tal modo l’attuale tendenza universalizzante, mentre attenua una forma storica di esclusione educativa, ne rinforza un’altra, producendo in questa nuove dinamiche. I poveri possono avere accesso al sistema scolastico, purché non si metta in discussione l’esistenza di reti educative strutturalmente differenziate e segmentate, nelle quali la qualità del diritto all’educazione è determinata dalla quantità di mezzi che ognuno ha per pagarsela. In altre parole, che tutti abbiano accesso alla scuola non significa che tutti abbiano accesso allo stesso tipo di scolarizzazione.
   Si potrebbe affermare che è stato sempre così in America Latina. Ma ciò che interessa qui è che tale tendenza non si sta invertendo dopo 20 anni di programmi neoliberali di aggiustamento strutturale. L’esclusione educativa non è cessata, semplicemente ha mutato sede.

L’esclusione educativa come relazione sociale

   Lo scenario ereditato da queste riforme si rivela più drammatico se riconosciamo che, diversamente dai supposti meriti del neoliberalismo, non è altro che l’inoccultabile emblema del suo chiaro carattere antidemocratico ed escludente. I riformatori di turno affermano che oggi il centro delle politiche pubbliche sono coloro che agiscono, gli attori, le persone. In questa situazione, dicono, una politica che promuova la giustizia deve aiutare coloro che si trovano in situazioni di svantaggio (poveri, analfabeti, bambini, disoccupati, insomma: esclusi). È un obiettivo lodevole che ha dato origine a innumerevoli politiche specifiche e a un ventaglio di programmi sociali: azioni compensatorie, sistema di adozione di scuole e/o persone ("adotta un analfabeta", "diventa padrino della scuoletta del tuo quartiere"), appelli alla responsabilità sociale di tutti (specialmente degli imprenditori), volontariato, promozione di azioni filantropiche, ecc. Il fatto che l’anno 2001 sia stato dichiarato Anno Internazionale del Volontariato, ha permesso la diffusione di un’ampia gamma di discorsi che esaltano l’altruismo e la generosità come strategie di lotta alla povertà ed ai suoi effetti collaterali. "Sii amico dei poveri" è diventato lo slogan del momento, in una valanga di messaggi disparati dal marketing sociale delle imprese e del governo, improvvisamente sensibilizzati dal colore, la dimensione, la forma e l’odore della miseria.
   Ma il problema sembra essere più serio. È evidente che l’esclusione è una condizione o uno "stato", frutto di un processo. Come processo, come relazione sociale, l’esclusione non sparisce quando si "combattono" i suoi effetti, ma piuttosto le sue cause. Non tutte le azioni che dicono di voler sconfiggere l’analfabetismo, vogliono di fatto mettere fine alle cause che producono i processi di esclusione. Poiché la causa dell’analfabetismo non sono gli analfabeti, le politiche che si occupano delle "persone" e mettono in atto programmi specifici di aiuto ai poveri/analfabeti, nonostante ottengano effetti compensatori di maggiore o minore importanza, non impediscono, bloccano o limitano la produzione di nuove esclusioni. Di conseguenza, nuovi esclusi, saranno destinati in futuro ad essere aiutati da altri programmi sociali. Una serie di azioni, lungi dal risolvere il brutale "apartheid scolare" sofferto dai settori popolari, ha reso la povertà più edulcorata grazie all’effetto redentore del neo-filantropismo imprenditoriale e governativo.

L’esclusione e il silenzio

    Tuttavia, il problema più grave o la questione centrale consiste, credo, nel fatto che ci stiamo abituando al processo storico di esclusione educativa. "Perché avventurarsi in una donchisciottesca e inutile azione a favore di quelli che non hanno nulla?". L’apartheid educativo appare inevitabile.
   Ritorniamo alla scarpa di Matteo: in quale misura la pratica educativa contribuisce a far diventare visibili (o invisibili) i processi sociali a partire dai quali determinati individui sono soggetti a brutali condizioni di povertà o marginalità? Qual è il ruolo delle istituzioni scolastiche? Il loro potere di provocare stupore?
   "L’esigenza che Auschwitz non si ripeta – ha affermato una volta Theodor Adorno – è la prima di tutte per l’educazione". La scuola deve contribuire a rendere visibile ciò che lo sguardo normalizzatore nasconde. Deve aiutare ad interrogare, a discutere, a capire i fattori che storicamente hanno contribuito alla produzione della barbarie che pensa di negare i più elementari diritti umani e sociali alle grandi maggioranze. La scuola democratica deve essere uno spazio capace di pronunciare il nome di quello che, da solo, non dice il suo nome, travestito dai grotteschi eufemismi con un volo radente a partire dai gabinetti ministeriali.
   Nel chiamare per nome la barbarie, la scuola realizza il suo piccolo, ma fondamentale contributo politico alla lotta contro lo sfruttamento, contro le condizioni storiche che fanno delle nostre, società segnate dalla disuguaglianza, dalla miseria di molti e dai privilegi di pochi.
   Quella mattina il sole aveva uno splendore speciale. Forse era a causa del sorriso di Matteo che, allo svegliarsi, mi invitava a giocare. Cominciai a immaginare quale tipo di scuola avrebbe avuto. Spero una scuola che gli permetta di cogliere la differenza tra due piedi scalzi, tra un banale disguido e una brutale negazione.

 

* La traduzione è di Maria Pia Montesi e Alessio Surian.