IL MINISTRO DEL WELFARE SMENTISCE LE PREVISIONI DEL TESORO

CONTENUTE NELLA TRIMESTRALE DI CASSA.

Statali senza contratto verso lo sciopero.

Maroni e Sacconi: «Non ci sarà nessun rinvio al 2006».

di Raffaello Masci, da La Stampa  dell'1/5/2005

 

ROMA - Un gesto pacificatore il governo ha provato a farlo: «Il contratto dei dipendenti pubblici si farà e si farà presto, senza rinvii al 2006» hanno detto il ministro del Welfare Roberto Maroni e il suo vice Maurizio Sacconi, secondo i quali l’esegesi del testo della trimestrale di cassa che rimandava tutto all’anno nuovo, è un errore di lettura.

Carlo Podda, segretario della Cgil funzione pubblica, ha preso la cosa con un certo scetticismo. Non foss’altro per il fatto che a parlare, sia in un caso che nell’altro, è sempre il medesimo governo. Lo stesso, per dire, che alla vigilia delle elezioni amministrative aveva giurato e spergiurato che si era ormai alle battute conclusive. E invece, campa cavallo.

La vertenza dei dipendenti pubblici è annosa e riguarda una enorme e variegata massa di lavoratori. In totale si parla di 3.534.700 persone, tra medici, insegnanti, ministeriali, dipendenti degli enti locali, forze dell’ordine, magistrati, eccetera, concentrati per il 42,6% nel Nord del paese (il 13% solo in Lombardia), il 25,4% al centro e il 19,6% al Sud.

Questi lavoratori rinnovano il loro contratto ogni quattro anni ma, all’interno di esso, la parte economica viene rivista ogni biennio sulla base dell’inflazione programmata. Il tutto secondo le norme di politica dei redditi sancite nell’ormai storico accordo del luglio del ‘93.

L’ultimo contratto relativo alla parte economica, è però scaduto dal 31 dicembre del 2003 e da allora - 16 mesi - se ne attende il rinnovo. Con un’aggravante: i dirigenti pubblici e i medici non hanno rinnovato neppure il contratto relativo al biennio 2002-2003, e quindi attendono non da 16 mesi, ma da 40.

Quanto alle cifre, i sindacati avevano chiesto un aumento dell’8%. L’Istat aveva segnalato un 6,2% come quota minima per recuperare l’inflazione. La Finanziaria, per tutta risposta, aveva previsto una copertura pari ad un incremento del 4,3%. Questa percentuale però, doveva ritenersi comprensiva anche di un eventuale premio di produttività dello 0,8%.

Per dirla in cifre tonde, l’aumento per un ministeriale - per fare un esempio - sarebbe stato di 84 euro al mese lordi, 76 per un dipendente degli enti locali, 89 per un insegnante. Somme che, decurtate del premio di produttività (che, per definizione, non si può dare a tutti) avrebbe portato - per esempio - l’aumento dei ministeriali a circa 70 euro che, a loro volta, al netto delle tasse sarebbero diventati sì e no 50.
Inutile dire che in questo primo maggio gli animi sono esacerbati, soprattutto dopo due importanti eventi che si sono dati in questa vertenza. Il primo è stato lo sciopero generale del settore del 18 marzo scorso, al quale non ha fatto seguito neppure una convocazione formale. Il secondo è stato quello che Podda ha definito la «manfrina elettorale». Dopo lo sciopero citato e a ridosso delle elezioni amministrative del 3 aprile, il governo promise una rapida chiusura della vertenza, al punto che circolarono delle cifre: il vicepremier Fini parlò di 95 euro come aumento di media per tutto il comparto. Il presidente del Consiglio disse in Tv che non sarebbe stato qualche centesimo in più a impedire la chiusura dei contratti.

An e Udc convocarono un’assemblea su questa vertenza e i cattivi vi lessero un interesse elettorale, che andava a stridere tuttavia con quello diametralmente opposto della Lega, la cui base non avrebbe visto di buon occhio un ennesimo travaso di soldi verso i «ministeri romani».

Tant’è che non se ne fece nulla. Come nulla è stato fatto dopo le elezioni, se non prendere la decisione, ora smentita dal ministro Maroni, di rinviare il contratto al 2006, producendo così un vantaggio alle casse dello Stato che consentirebbe di recuperare per qust’anno un quarto di punto nel rapporto deficit-Pil.