LE IDEE.

I padroni dell'università.

di Angelo Semeraro*, da la Repubblica del 3/7/2005

 

Nella giusta demarcazione degli ambiti a cui va ricondotta la questione universitaria, che è questione nazionale di prima grandezza, è giusta l´esigenza di una discussione che non voglia sfuggire a quel principio di responsabilità che resta un baluardo etico prima ancora che fondamento di norma giuridica e di azione giudiziaria. L´informazione, la magistratura, la politica, l´azione di governo non possono sostituirsi a quella necessaria interrogazione dei corpi accademici che hanno memoria dell´istituzione e, almeno nella parte più consapevole, ne difendono quel prestigio incrinato dai fatti recenti di cronaca.

L´informazione, quando disponga di schiene ben dritte, svolge in una società civile un suo indispensabile compito di orientamento dell´opinione pubblica e non può arrestarsi innanzi a nessun potere, anche quando vestano l´ermellino; la magistratura, messa innanzi alla responsabilità di testimoni che agiscano non per risentimento di mancato invito al banchetto delle spartizioni e dei favori incrociati, ma per l´orgoglio dell´istituzione, farà il suo lavoro. Poco ci sarà invece da attendere in quest´ora dall´azione di governo, che sembra non avere altre soluzioni oltre quella di una più acuta precarizzazione della ricerca. Va detto che i processi di degrado vengono da lontano, e non è certo il sistema dei crediti formativi il principio del male che ha innescato il degrado.

 

Per quel che ne so l´università berlingueriana si è rimboccata le maniche e ha accettato pure le modificazioni profonde del ruolo docente, costringendoci un po´ tutti a improvvisarci ragionieri e contabili. Non vi è dubbio che il post-berlinguerismo abbia prodotto tuttavia danni maggiori quando ha inteso porre nelle mani di improbabili nuclei di valutazione (nazionale e locali) una contabilizzazione dell´immateriale. Perché di questo si tratta: si possono sì parametrare gli spazi, i laboratori; si possono contare le teste dei docenti, ma non si può contabilizzare la formazione. Questa la giudicherà la società, il mercato, anche se sappiamo di quale mercato stiamo parlando quando i migliori cervelli siano costretti ad espatriare.

Ma veniamo al punto: se l´Università si materializza; se la si vuole azienda, impresa, fondazione, la selezione del corpo accademico cambia segno. A rappresentare l´istituzione non manderemo più i più prestigiosi scienziati, i migliori studiosi. A condurre gli Atenei bisogna mandarci i più intraprendenti, i più capaci di erogare risorse, di vincere anche quando non convincano. Magnifici che indirizzano risorse a loro discrezione: possono incrementare filiere di ricerca, borse, dottorati in una direzione o in un´altra; "implementando" o affossando corsi di studi o facoltà sulla base non dei loro bisogni o dei risultati , ma su criteri che alimentano clientele sempre più fameliche e feroci in tempi in cui le risorse scarseggiano. Per non dire dell´attenzione riservata ai concorsi.

Ne deriva insomma un sistema di condizionamenti a valanga, interni ed esterni. Il sistema è diventato lentamente ma inesorabilmente questo, in tutti gli snodi della vita universitaria. Se è l´intraprendenza il valore più apprezzato nell'università-azienda, ciascun professore ordinario che si rispetti (e si faccia rispettare) attende il suo turno per mandare in cattedra il suo miglior allievo o anche il figliolo, la figliola e all´occorrenza qualche amica del cuore. Importante è che sia stato al gioco, o che almeno lo abbia consentito, a suo tempo: che abbia votato come, chi e quando si doveva.

Le zone di resistenza morale insomma sono state inesorabilmente spazzate via anche dalle università, dove la questione morale è stata derubricata. E allora si dovrà perciò ricominciare da qui. Abbiamo lasciato per molto tempo che il tessuto si corrompesse. Che piccole cordate di faccendieri facessero degli studi un mercato di titoli e di prebende, costituendosi in comitati di interessi, di scambi, coperti da lunghi e imbarazzanti silenzi, interni ed esterni.

Al punto in cui siamo occorre che la vigilanza esterna sia occasione da non sciupare per portare fino in fondo un´opera di risanamento agendo anche dall'interno del sistema universitario. Bisognerà darsi insomma le forze che fin qui sono mancate per piegare le logiche corporative, all'ombra delle quali si celano precise responsabilità personali. E visto che il fenomeno colpisce sia il nord che il centro come il sud; sia grandi che medi e piccoli atenei, la Conferenza dei rettori batta un colpo per favore; si metta in questione, e faccia la sua parte.

 

*  ordinario di Pedagogia della comunicazione all'università di Lecce